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The Pleasure of Pain II Extended - Da Sade a Pasolini /5: Contro il Potere




La ragione profonda che mi ha spinto a fare il film è il vedere ciò che oggi il Potere fa della gente: la manipolazione totale, completa, che il potere sta facendo delle coscienze e dei corpi della gente.

Pier Paolo Pasolini

Bisogna essere prudenti quando si scrive, perché mai il dispotismo ha censurato tante lettere quante oggi la libertà.
Donatien-Alphonse-François de Sade

* * *


Pier Paolo Pasolini, regista di Salò e Le 120 giornate di Sodoma, si incontra con il Marchese de Sade, autore de Le centoventi giornate di Sodoma. Sul piano del comune interesse per la componente sadomasochistica dell'esperienza sessuale, ma anche, e in misura maggiore, sul piano della critica alla violenza e all'arbitrio del potere.

Così, in particolare, il cineasta, in un'intervista rilasciata al critico, fotografo e documentarista tedesco Gideon Bachmann (1927-2016), spiega il rapporto tra il suo film e il romanzo di de Sade:
Il sadomasochismo è una categoria eterna dell’uomo – c’era al tempo di de Sade, c’è oggi, eccetera eccetera, ma non è questo che mi importa… cioè, mi importa anche questo, ma il reale senso del sesso del mio film è una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto, e quindi vale in realtà per tutti i tempi. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza il potere di questi giorni, oggi 1975. E’ un potere che manipola i corpi in un modo orribile che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi. Sono i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti.¹

Non so se Pasolini abbia mai letto Gilbert Lely, autore, nel 1953, della prima vera biografia del Marchese de Sade, ma trovo in ogni caso significativo l'effetto dell'accostamento tra una frase del libro di Lely, Vita del Marchese de Sade, e alcune altre dichiarazioni del regista tratte dalla stessa intervista.

Scrive Lely, a proposito del particolare tipo di ateismo di de Sade:
De Sade contro Dio, significa de Sade contro la monarchia assoluta, contro Robespierre, contro Napoleone, contro tutto ciò che costituisce in modo esplicito e implicito un'ipoteca qualsiasi sullo splendido dominio della soggettività umana.²
E de Sade fu in effetti "rivoluzionario" sotto Luigi XVI; "controrivoluzionario" durante l'ascesa di Robespierre; e, infine, "anti-imperialista" sotto Napoleone.
  
Ma proviamo adesso a confrontare la frase di Lely con altri due estratti dall'intervista di Pasolini citata:
Se io al posto della parola "Dio" in de Sade metto la parola "Potere" viene fuori una strana ideologia, estremamente attuale, e questa attualità segna un salto, un vero e proprio salto rispetto ai film precedenti che ho fatto finora, cioè la Trilogia della vita (il Decameron, I Racconti di Canterbury, Le Mille e una notte). È Marxismo puro, cioè il Manifesto di Marx dice proprio questo: il potere mercifica i corpi, trasforma il corpo in merce. Quando Marx parla dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla effettivamente di un rapporto sadico.

E ancora:
[La nostra] è una civiltà omologatrice, che rende tutto uguale da cima a fondo. E' quindi chiaro che cadono i confini tra i piccoli gruppi… E’ una depauperazione dell’individualità che si maschera attraverso una sua valorizzazione.

Pasolini sul set di Salò o Le 120 giornate di Sodoma (Gideon Bachmann). 

Ed è questo stesso abuso del potere, questa stessa depauperazione dell'individuo, ciò che Sade, vittima di ogni potere e in rivolta contro ogni potere, denunciava a sua volta senza tregua. Lasciata presto cadere ogni speranza da lui riposta nella Rivoluzione - la speranza a cui aveva dato voce nel finale di Francesi, ancora uno sforzo se volete essere Repubblicani (Français, encore un effort pour être républicains), in quella che è forse da considerarsi l'unica parte non parodistica del pamphlet - poté solo riconoscere che i nuovi arrivati erano - al di là dei principi che professavano - non meno dispotici e sanguinari di coloro che avevano spodestato.
Di qui l'indignazione con cui rendeva nota, agli interlocutori delle sue lettere private scritte negli anni seguenti alla sua liberazione dalla Bastiglia, ogni notizia che gli giungeva sulle atrocità commesse dai nuovi "antropofagi" al potere. Fino allo sfogo amarissimo contenuto in una lettera scritta dal Marchese subito dopo la sua liberazione da Charenton. Nell'ospizio di Charenton, trasformato in prigione di lusso dai suoi ex liberatori, de Sade aveva goduto di agi e di una semilibertà mai sognati alla Bastiglia, ma era anche stato costretto ad assistere al rituale quotidiano delle decapitazioni, eseguito alla ghigliottina che era stata eretta nel cortile della struttura. Con il risultato di rivolgersi all'amico d'infanzia, e amministratore dei suoi beni, Gauffridy, in questi temini:
La mia prigionia nazionale con la ghigliottina davanti agli occhi, mi ha fatto più male di quanto non me ne avessero arrecato tutte le bastiglie immaginabili.
E non andrà meglio sotto l'Impero, con Napoleone, le conseguenze della cui ascesa de Sade aveva presagito già in Francesi, ancora uno sforzo..., dove accusava i suoi connazionali non solo di essersi convinti di aver fondato un modello superiore di civiltà, ma di sentirsi anche legittimati a esportarlo altrove e imporlo ad altri popoli e altre nazioni:
Ma io non vorrei che, dopo aver cacciato il nemico dalle vostre terre, o Francesi, foste trascinati oltre dall'ardore di propagare i vostri principi; infatti solo col ferro e col fuoco potreste portarli in capo al mondo! Prima di imbarcarvi in certe imprese, ricordatevi del disgraziato esito delle Crociate. Datemi ascolto!

Ed è quantomeno curioso che su questo stesso vizio - a lungo tipicamente francese, con il Razionalismo a far le veci del Cristianesimo di Cortés e Pissarro, prima di passare in altre mani - si soffermi a lungo Pasolini stesso, in uno dei passi più densi e importanti dell'intervista a Bachmann:
Oltre che sull’anarchia del potere, il mio film è anche un film sull’eventuale inesistenza della storia. È un film in polemica contro l’idea della storia che ha la cultura eurocentrica, cioè il Razionalismo, o anche l’empirismo borghese da una parte e il Marxismo dall’altra. Prenda la Francia, con i suoi rapporti con l’Algeria e con il terzo mondo in generale, la Francia che è arrivata al massimo della razionalizzazione del mondo. Per la Francia, la parola libertà corrisponde con la parola razionalità. Ora la Francia è arrivata a una specie di saturazione della propria razionalità, e allora, come si pone davanti a questo irrompere di irrazionalità che porta con sé il terzo mondo della fame? Nel terzo mondo le popolazioni, appunto perché represse e tenute ai margini della vita pubblica e della vita politica, hanno conservato, come tutte le aree marginali, un tipo di cultura precedente, che è evidentemente un tipo di cultura in qualche modo preistorica. La Francia si pone come ammaestratrice di razionalità ai popoli coloniali. E infatti li educa benissimo. La Francia non ha preso niente da loro, ha soltanto dato, dato un modello di educazione, di razionalità, di civiltà, ma non ha saputo imparare niente da loro, perché questo tipo di religioso, irrazionale, preistorico che il terzo mondo porta con sé non è razionalizzabile, e quindi i Francesi devono modificare la loro ragione se vogliono comprendere, se non vogliono restare indietro… In questa modifica consiste la modernità.



Ma torniamo ora a Lely e al suo libro, e in particolare a una sua parte in cui lui si interroga su quello che è forse il più grande mistero de Le centoventi giornate di de Sade:
...sui seicento casi anormali raccontati dalle narratrici, senza contare l'azione che si svolge al castello, dove questa pratica ripugnante è ben rappresentata, più della metà offre l'immagine della ingestione degli escrementi, in forma autonoma o associata a altre passioni. Ora se la coprolagnia visiva, olfattiva o tattile (che sembra derivare dal feticismo e dal sadomasochismo) è relativamente frequente, la sua gemella parossistica, la coprofagia, non può essere inclusa che nel numero delle perversioni sessuali meno diffuse. Ricordata una sola volta nelle novecento pagine in-quarto della raccolta del Kraft-Ebing, essa dipende prima di tutto dalla alienazione mentale, dominio che non dovrebbe interessare l'indagine del marchese. Così nelle 120 journées la verosimiglianza è spesso rotta dalla supremazia gratuita della perversione più di tutte schifosa, che avrebbe potuto essere sostituita opportunamente da altre varianti squisitamente erotiche.³

Lely neppure si prova a dar conto di una simile incongruenza, e in questo è in buona compagnia, visto che neanche i più noti studiosi di de Sade si sono dimostrati granché volenterosi di cimentarsi nell'impresa. Maurice Blanchot, per dire, preferisce porre la sodomia come perversione centrale dell'opera del Marchese ed è a essa che dedica pagine pagine su pagine del suo pur breve saggio La raison de Sade⁴. E anche Georges Bataille e Pierre Klossowski preferiscono dedicarsi ad altro.
Da parte mia posso dire che, già da sola, questa incongruenza dovrebbe bastare a scongiurare ogni tentativo di vedere in de Sade un enciclopedista della perversione all'opera. Le sue mire devono essere state altre e lui si è guardato bene dal rendercele evidenti.

Può forse dirci qualcosa di più l'uso che Pasolini fa della coprofagia nel suo film? In questo caso le dichiarazioni del regista, almeno sulle sue proprie intenzioni, non lasciano dubbi:
Un vecchio contadino tradizionalista e religioso non consumava delle sciocchezze preconizzate dalla televisione. Bisognava fare in modo che invece le consumasse. In realtà, i produttori costringono i consumatori a mangiare merda. Il brodo Knapp è merda! Danno delle cose sofisticate, cattive, le robioline, i formaggini per bambini, tutte cose orrende che sono merda.

 

La coprofagia è quindi, nel film di Pasolini, una chiara metafora di quel che il consumismo produce, reclamizza e fa mangiare. Ma cosa avrebbe preteso di metaforizzare de Sade, con il suo costante ricorso allo stesso soggetto nella sua scrittura? Forse tutta la merda che il potere gli faceva ingoiare, giorno dopo giorno, nella sua vita da carcerato? E' una tesi non del tutto improponibile, ma anche senza dubbio difficile da sostenere e impossibile da documentare.


Foto di Deborah Imogen Beer dal Girone della merda.


Pasolini così continua:
Se facessi un film su un industriale milanese che produce biscotti, li reclamizzasse e li facesse mangiare a dei consumatori, verrebbe fuori un film terribile, sull'inquinamento, la sofisticazione, l'olio fatto con le ossa delle carogne. Potrei fare un film così, ma non posso! Come faccio a stare lì un anno prima a pensarci e poi a girare? Sarebbe più utile, nel senso diretto, pratico della parola, farlo proprio così com'è, ma chi me lo fa fare? Sarebbe autolesionismo.

Conviene quindi puntare sulla metafora, accettando il rischio di non essere compreso. E i giovani?, chiede a un certo punto a Pasolini uno speranzoso Bachmann.
Non mi illudo di essere capito dai giovani - gli risponde il regista - perché con i giovani è impossibile instaurare un rapporto di carattere culturale. I giovani vivono nuovi valori, con cui i vecchi valori, a nome dei quali io parlo, sono incommensurabili.

"Vecchi valori" che coincidono, nel caso di Pasolini, con quelli espressi dall'ultima cultura vivente e reale fiorita sul suolo italiano, la cultura contadina:
«Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto di chinare la testa, anzi crede stupidamente di non chinarla e avere i suoi diritti. Anzi, è sempre lì a pretendere i suoi diritti, a crederci, invece è un povero cretino. Non credo ci sarà mai un tipo di società in cui l'uomo sia libero. Quindi, è inutile sperarci. Non bisogna mai sperare in niente. La speranza è una cosa orrenda, inventata dai partiti per tener buoni i loro iscritti.
De Sade avrebbe, almeno in parte, sottoscritto.


* * *

Note al testo

¹ Eccetto la citazione di apertura, tratta da una conferenza stampa di presentazione del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, questa citazione è tutte le successive di Pasolini provengono da: Pasolini prossimo nostro. Cinemazero/Ripley's Film, 2006. Regia di Bernardo Bertolucci.

² Gilbert Lely, Vita del Marchese de Sade, il profeta dell'erotismo. Feltrinelli, 1983; pag. 285.

³ Gilbert Lely, op. cit., pag. 290.

⁴ Maurice Blanchot, La ragione di Sade. In: Maurice Blanchot, Lautréamont e Sade. SE, 2003.

* L'immagine di apertura del post è un fotogramma di Salò o Le 120 giornate di Sodoma tratto dal Girone del Sangue.

Commenti

  1. Visto e piaciuto (ho un dvd masterizzato molto vecchio), non subito, ho avuto bisogno di metabolizzare molte scene che , ricordo, mi lasciarono turbato. Adattissimo come metafora dei tempi attuali, non soltanto per quelli degli anni '70. Dubito, però, che oggi ci sia la capacità di interpretare tutto ciò che riguarda l'utilizzo delle allegorie, mi riferisco alla larga parte dei più giovani eventuali fruitori del film. Pasolini, ne parlammo già in altre occasioni, resta per me un autore portentoso, forse tra gli unici pochissimi veri intellettuali della seconda metà del novecento. Personalissima opinione. Gran bel pezzo, complimenti, Ivano.

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    1. Anche per me Pasolini è un punto di riferimento fondamentale, sebbene lo conosca praticamente solo per i suoi film, qualche poesia sparsa, i testi delle canzoni e gli articoli politici e sul cinema. Mentre non mi sono mai addentrato nella lettura dei suoi romanzi o di intere raccolte poetiche, sebbene sia sempre stato molto tentato di leggere l'incompiuto Petrolio.
      Il film Salò lo vidi due volte al cinema alla fine degli anni '70, in tempi abbastanza ravvicinati tra loro, e mi era piaciuto già allora anche se un po' meno dei film della Trilogia della vita. Per cominciare ad apprezzarlo in pieno e fargli scalare un bel po' di posizioni ho dovuto vederlo una terza volta una ventina di anni dopo.
      Grazie mille per i complimenti, Massimiliano. E per i commenti qui e su fb, naturalmente ^__^

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  2. Il consumismo è indubbiamente un modello malato imposto dal capitalismo, anche se resto un po' perplesso sull'uso di una metafora così forte come la coprofagia. In effetti, se ci pensi bene, l'uso cinematografico da parte di Pasolini di scene con contenuti che fino a quel momento erano stati soggette a censura (nudo, sesso, turpiloquio) paradossalmente è stato la base delle successive sexy commedie "pecorecce" che hanno usufruito dei successi di Pasolini contro la censura solo per riproporre gli aspetti più superficiali (appunto: nudo, sesso e turpiloquio fini a se stessi all'interno di pellicole dai contenuti triviali). Ergo: ho i miei dubbi che lo spettatore medio capisca le metafore, temo che necessiti di maggiori spiegazioni. Per usare un tormentone scrittorio: si dice che un buon scrittore è quello che "show, don't tell". Penso che lo spettatore medio invece abbia bisogno di tantissimo "tell" per capire il senso di ciò che gli viene mostrato. É solo una mia ipotesi eh, non la propino come certezza.

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    1. Anche se non c'è dubbio che i decamerotici si rifacciano al Decameron di Pasolini, non so in che misura abbia davvero inciso il suo cinema sull'evoluzione delle sexy commedie in generale. Penso per esempio a un film come Basta guardarla di Luciano Salce, che precede di un anno il Decameron ma ha già un po' tutti gli ingredienti tipici della futura commedia sexy, sebbene ancora a uno stato embrionale. Per quel che riguarda poi il mostrare corpi nudi, non bisogna neanche dimenticare la grande influenza di quel periodo sul nostro cinema da parte del cinema nordico. Il bellissimo film svedese Io sono curiosa, per esempio, che mostra una splendida e esplicitissima Lena Nyman, è del 1967, e in Italia, già tra il 1968 e il 1971 (anno di uscita del Decameron), vive peripezie con la censura non troppo diverse da quelle che vivrà poi Pasolini.
      Di certo c'è stata una complicità di generi, visto che Ninetto Davoli alternava con disinvoltura il suo tipico personaggio pasoliniano sia nei film del Maestro che nelle commedie sexy ;-D

      Riguardo al "tell, don't show", forse un messaggio più detto che mostrato ha più probabilità di essere capito sì, ma poi, oltre al capire, ci vuole anche la volontà di recepire, che è molto più rara. E forse chi ha questa volontà è già pronto di suo a sforzarsi di capire il detto dietro il mostrato.

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  3. Mamma mia quanto cose presenti in questo post che che condivido

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    1. Lo stesso vale per me, caro Ferruccio, tante tante cose...

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  4. Ciao ma è venuto in mente solo a me che per certi versi la metafora che fa Pasolini sul potere che rende l’uomo cieco verso il suo prossimo , anarchico insensibile a qualsiasi morale se non la propria ( se ne si può attribuire una al libertinaggio Sadiano) sia molto simile alla metafora che fa Spasojevic sempre sul potere politico dello stato che annienta l’individuo nel suo A Serbian film.?

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    1. Ciao, Max! Chissà, magari lo stesso Spasojevic per primo ha pensato a Pasolini.

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    2. Probabile, mi sa che è altamente probabile.

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    3. Soprattutto se si considera che sembra voler seguire Pasolini anche in questo espediente narrativo, descritto da Pasolini in una nota di testo al mio post su Salò successivo a questo:
      "A ogni inquadratura, si può dire, devo pormi il problema di rendere lo spettatore intollerante e subito dopo smontarlo".

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