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Solve et Coagula - Nota al Capitolo 5 /2: Giocare all'amore, giocare alla morte




Il tema della sovranità nell'infanzia, e della sua perdita, si arricchisce in questa seconda parte della Nota di nuove sfumature, a tratti cupe o perfino tenebrose, originate dal suo incontro con la coppia-dualità amore/morte.
Ho concluso il precedente post con una grande poesia di Friedrich Hölderlin, apro questo seguito con un'altra grande poesia, opera stavolta del poeta e giornalista ungherese Dezső Kosztolányi (1885-1936), uno dei principali protagonisti della rinascita letteraria ungherese dei primi decenni del Novecento.
Vuoi giocare?, è questo il titolo, ci inoltra subito al cuore di quanto ho appena scritto. E' poi, per inciso, una delle liriche che più amo in assoluto. Anche per questo la propongo qui in una versione italiana inedita che ho realizzato con l'assistenza, preziosa e indispensabile, di due mie amiche ungheresi, che ringrazio di cuore e doverosamente cito nei riferimenti alla fine del post.

Vuoi giocare?

Akarsz-e játszani? - Dezső Kosztolányi

Dimmi, vuoi essermi compagna di gioco,
vuoi sempre, sempre giocare,
andare insieme nel buio,
con cuore infantile darsi importanza,
sedere a capotavola con serietà,
versare acqua e vino a modo,
gettare perle, gioire di niente,
mettere vecchi vestiti, sospirando?

Vuoi giocare a tutto ciò che è vita,
l’inverno con la neve e il lungo autunno,
prendere un tè senza parlare,
un tè di rubino e umido vapore giallo?
Vuoi vivere con cuore colmo, puro,
stare a lungo in silenzio, aver paura ogni tanto,
perché il Novembre s’aggira per strada,
perché lo spazzino, un pover’uomo malato,
fischietta sotto la nostra finestra?

Vuoi giocare a serpente, uccello,
al lungo viaggio, al treno, alla nave,
al Natale, ai sogni, a tutto ciò che è bello?
Vuoi giocare all’amore felice,
fingere lacrime, un cimitero addobbato?
Vuoi vivere, vivere per sempre,
vivere nel gioco ch’è diventato vero?
Sdraiarti per terra in mezzo ai fiori,
e vuoi, vuoi giocare alla morte?

* * *


Ed eccoci al secondo dei due ospiti di questo post: lo scrittore Géza Csáth (József Brenner, 1887-1919). Con lui non mi allontano di molto da Kosztolányi, per due motivi: primo, è anch'egli ungherese; secondo, è suo cugino, oltre che compagno di giochi prediletto dell'infanzia.
Géza Csáth morì suicida all'età di trentuno anni dopo avere ucciso anche la moglie. In vita fu scrittore, musicista, critico d'arte, medico psichiatra, e la sua scrittura fu debitrice di questa varietà di interessi e specializzazioni fin dallo stile, che ha in sé molto di musicale e di pittorico. I suoi racconti, in perpetua oscillazione tra realtà e sogno proprio come la sua vita (decisiva per la sua parabola discendente fu la dipendenza dalla droga), sono spesso immersi in una dimensione surreale e fiabesca che non evita di sfociare all'occorrenza in toni da racconto dell'incubo. L'infanzia, rievocata biograficamente o anche solo immaginata, fu uno dei filoni principali della sua produzione, e uno dei suoi modelli dichiarati fu il favolista danese Hans Christian Andersen.


L'antologia in lingua italiana Oppio e altre storie, a cui attingo per il post, è composta di diciannove racconti di varia lunghezza e di vario genere. Ho deciso di citarne due, per due motivi diversi.
Inizio da un estratto del racconto La piccola Emma, dove sembra proprio di sentir echeggiare, al di là della sua letterale crudezza, i motivi finali della poesia Vuoi giocare? Ma nulla vieta di leggervi il preannuncio di tante scene di horror cinematografici a venire..
(Nota: Il titolo della parte di racconto che segue, come anche di quella che presento successivamente, è una mia attribuzione e non appartiene al testo originale).

Giochi in soffitta 

Géza Csáth

Balthus, Therese (1939, part.)
Erano gli ultimi pomeriggi rischiarati da un tiepido sole autunnale. Il cortile era tutto nostro. Il babbo e la mamma erano usciti a cavallo. La cuoca ci servì il caffè, quindi si ritiro in cucina a preparare da mangiare.
- Hai visto mai un'impiccagione - chiese mia sorella a Emma dopo la merenda.- No! - rispose Emma e scosse il capo per far sì che i capelli le cadessero sul viso.
- Ma ne hai sentito parlare dal tuo babbo?
- Sì, ci ha raccontato che hanno impiccato un assassino, - disse Emma in tono freddo e disinteressato.
- Noi abbiano una forca. Eh già - disse Juci con sussiego.
Ben presto ci ritrovammo tutti in soffitta per mostrare a Emma come si svolgeva un'impiccagione. Il cane bassotto lo avevamo già sepolto giorni addietro insieme a Gábor nella fossa dei rifiuti, il cappio dondolava vuoto a mezz'aria.
- Adesso possiamo giocare a impiccare qualcuno, - disse Irma. - Emma sarà il colpevole, è lei che impiccheremo.
- Impicchiamo piuttosto te, - disse Emma mettendosi a ridere.
- Boia, esegua il suo dovere! - esclamò Gábor impartendosi gli ordini da solo.
La piccola Emma impallidì, tuttavia continuò a sorridere.
- Adesso stai ferma e non muoverti, - disse Irma. Io le infilai il collo nel cappio.
- No, non voglio, - si mise a piagnucolare la bambina.
- L'assassino chiede pietà! - gridò Gábor con le gote arrossate. - Ma gli aiutanti del boia afferrano il condannato. - Ani e Juci accorsero ad immobilizzare Emma per le braccia.
- Non ve lo permetto, no! - strillò la piccola Emma e si mise a piangere.
- La clemenza è nelle mani di Dio! - scandì Gábor. E Irma sollevò in alto la sua amica stringendola per le ginocchia.
Il peso era eccessivo, stava per cadere, così mi accostai a lei per darle una mano. Quella fu la prima volta che potei abbracciarla. Mio fratello tirò la corda, l'arrotolò intorno a una trave e l'annodò. La piccola Emma penzolava dalla fune. All'inizio agitava le braccia e sferrava grandi calci con le sue magre gambette coperte da calzini bianchi. I suoi movimenti erano assai singolari. Non riuscivo a scorgere la sua faccia, perché in soffitta faceva già quasi buio. Poi all'improvviso ogni movimento cessò. Il suo corpo si allungò come se stesse cercando uno sgabello al quale appoggiarsi in punta di piedi. Quindi non si mosse più. Allora ci sentimmo invadere tutti da uno spavento orribile. Fuggimmo giù dalla soffitta correndo a precipizio e ci sparpagliammo per il giardino nascondendoci chi di qua, chi di là. Ani e Juci scapparono a casa.
Fu la cuoca, salita in soffitta per andare a prendere qualcosa, a trovare il cadavere mezz'ora dopo. Fu lei che corse a chiamare anche il padre di Emma, prima ancora che il babbo e la mamma tornassero a casa.

Da sottolineare l'abilità con cui lo scrittore stabilisce nel racconto la complicità tra amore e morte, quando il bambino coglie l'occasione di abbracciare per la prima e ultima volta la piccola amata. Ma anche la sua capacità di evocare, con un solo brusco accenno finale, il ritorno alla normalità familiare attraverso l'evocazione dell'imminente arrivo a casa dei genitori.


* * *


Sabato sera non è invece strettamente collegato alle direttive implicite nel titolo del post, ma è ancora uno di quei racconti in cui lo scrittore rievoca eventi e impressioni dei suoi anni d'infanzia, vissuti stavolta nell'alveo protettivo e confortevole della famiglia di origine. Ma, come sempre in Csáth, i confini domestici, così come quelli della psiche, sono esposti alla minaccia incombente di qualcosa che abita appena al di là, o più in profondità al suo interno. Ho scelto, di questo racconto, la parte che ha come protagonista l'uomo della sabbia, una figura del folklore che si muove e opera sul margine incerto tra visibile e invisibile. Sfuggente e dall'aspetto inquietante, getta la sabbia sugli occhi delle sue "vittime", rendendo loro pesanti le palpebre e spingendoli a cedere al sonno. Isolato dal contesto, appare di per sé come un vero e proprio gioiellino del fantastico, del tutto godibile.
Annoto solo, per finire, un'ultima simpatica curiosità: uno dei bambini protagonisti (Géza parla infatti al plurale) è proprio il cugino Dezső autore della poesia Vuoi giocare?

L'uomo della sabbia 

Géza Csáth

Wilhelm Stumpf, Illustrazione per
Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann
Ormai è giunta l'ora di dormire. La nonna si ritira nella sua stanza e incomincia pure lei a spogliarsi. Da fuori si sente la porta della cucina che viene aperta. Entra Juli. Regge in mano un vassoio con la caraffa e i bicchieri. Attraversa le stanze - i bicchieri cozzano l'uno contro l'altro tintinnando - e deposita il vassoio sul tavolo. Poi va di nuovo in cucina. trascorso qualche minuto, ritorna col lume a petrolio. Va a portare anche quello nella stanza del babbo e della mamma e lo posa sul tavolo.
E nello stesso istante l'uomo della sabbia è già lì.
Il babbo, quando glielo abbiamo mostrato, ha detto che si trattava dell'ombra della caraffa. E l'uomo della sabbia scompariva non appena lui spostava la caraffa, questo è vero. Però non si tratta di un'ombra, bensì dell'uomo della sabbia. Egli è simile a un gufo e sembra stare appollaiato proprio ai piedi del letto nel quale dorme il babbo. E' orribile a vedersi, perché è gigantesco, spaventoso e brutto. Quando lo scorgiamo ci tiriamo subito le coperte fin sopra le orecchie. Solo di tanto in tanto solleviamo un lembo della trapunta e gli diamo una rapida sbirciatina da lì sotto. L'uomo della sabbia è sempre lì. Aspetta che ci addormentiamo, e difatti - giacché lui lo vuole - bisogna proprio che ci si addormenti.
Uno può anche mettersi a riflettere e chiedersi da che parte si trovi l'uomo della sabbia durante il giorno, ma no arriverà mai a darsi una risposta. E' una cosa che nessuno sa. Tuttavia un fatto è certo, e cioè che il sabato sera anche l'uomo della sabbia è di umore più gaio del solito. In fin dei conti la mattina dopo è domenica: quel giorno noialtri dormiamo sempre fino a tardi e questo a lui fa piacere. E' contento che la gente dorma a lungo. Se la sera ci sembra di avere la sabbia negli occhi e sentiamo le nostre palpebre appesantirsi, ciò è dovuto all'uomo della sabbia. probabilmente egli ha qualcosa a che fare anche con gli sbadigli.
...Di là in salotto, pian pianino, il babbo e la mamma si vanno già preparando. Chiudono il pianoforte, soffiano sul lume per spegnerlo e si dirigono lentamente verso le nostre stanze cingendosi in un abbraccio. Un po' più tardi odo distintamente il babbo versarsi dell'acqua, rimettere a posto la caraffa e mettersi a bere.
Allora l'uomo della sabbia s'allunga sul muro e aumenta di statura: è ora che tutti si mettano a dormire. Il babbo dice: - Domattina provvederò io stesso a comprare i cavolfiori al mercato.
La mamma gli risponde qualcosa, ma non si riescono più a distinguere le sue parole. Quindi il babbo fa il giro di tutte le camere con la candela in mano. Controlla se la porta d'ingresso è chiusa bene, poi torna indietro. Infine soffia sulla candela e si mette a letto anche lui. A questo punto tutti si sono coricati. L'uomo della sabbia, il gigantesco uomo della sabbia sta lì acquattato ai piedi del letto, rasente la parete, e veglia osservandoci attentamente.


* * * 

Note e crediti

Dezső Kosztolányi, Vuoi giocare? Traduzione di Viktoria Baraniaj e Agnes Pusztai - Revisione di Ivano Landi.

Géza Csáth, Oppio e altre storie. Edizioni E/O 1985. Traduzione di Marinella D'Alessandro.

L'immagine di apertura del post è un particolare di un'illustrazione di Akseli Gallen-Kallela per la rivista Pan (1895).
Clicca sull'icona a lato per la visualizzzione intera.

Commenti

  1. Lo stralcio che hai intitolato "Giochi in soffitta" di Géza Csáth dimostra quanto è sottile il limite tra gioco e tragedia, tra sogno e incubo. Molti di noi avranno giocato nell'infanzia a giochi di morte, anche se non spinti al limite estremo come nel passaggio che hai proposto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "Giocare alla morte" credo sia un'esperienza che affascina enormemente i bambini, forse per il discorso che faceva Henry Miller sulla loro prossimità allo stato in cui esistevano prima di nascere, del quale conservano un ricordo inconscio.

      Elimina

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