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Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Un'indagine sui valori /5



"La Qualità è il Buddha".

Se quest'affermazione di Fedro è vera, scrive Pirsig, essa fornisce una base razionale per unificare tre aree dell'esperienza umana ora disgiunte: Religione, Arte e Scienza.

Sebbene, in realtà, a beneficiare del pensiero di Fedro, che non approfondì la comprensione della Qualità né quella del Tao, fu solo la ragione. Egli mostrò una via per ampliare la ragione in modo che includesse degli elementi che in precedenza erano inassimilabili e di conseguenza venivano considerati irrazionali.

Fedro come erudito era talmente scadente che sarebbe stato proprio da lui riprodurre qualche risaputo sistema filosofico che non si era preso la briga di esaminare, scrive Pirsig, che si mise per questo alla ricerca di un possibile doppione delle idee di Fedro e trascorse più di un anno a leggere la lunghissima e talvolta tediosa storia della filosofia.

Più volte Pirsig pensa di aver scoperto il doppione, ma poi, a causa di quelle che sembravano lievi differenze, Fedro aveva finito per imboccare una direzione assolutamente diversa.

Finché non si imbatte nell'astronomo, fisico, matematico e filosofo Jules Henri Poincaré.

Fedro segue un sentiero lungo e tortuoso per giungere alle più alte astrazioni, sembra ormai pronto a scendere, poi si arresta. Poincaré comincia dalle più elementari verità scientifiche, giunge ad alcune astrazioni, quindi si arresta. L'uno si ferma esattamente dove inizia l'altro! Tra loro c'è una continuità perfetta.


Poincaré visse dal 1854 al 1912 e fu uno dei primi a interessarsi alla teoria della relatività di Einstein. Nel suo La scienza e l'ipotesi ripercorse il cammino che aveva portato alla crisi dei modelli scientifici precedenti e ne aveva individuato l'origine prima nel fallimento del tentativo di dimostrare il quinto postulato di Euclide.
Se una retta taglia altre due rette determinando dallo stesso lato angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, prolungando indefinitamente le due rette, esse si incontreranno dalla parte dove la somma dei due angoli è minore di due angoli retti.

Ma lo stesso postulato è più noto nella forma dell'"assioma di Playfair". E in tale forma lo riporta Pirsig nel suo libro:

...per un punto dato passa una e una sola retta parallela a una retta determinata.

Il problema di questo postulato è che non appare ovvio e indiscutibile come i quattro che lo precedono e i tentativi di darne una dimostrazione vanno avanti per secoli. Fino alla scossa prodotta dal tentativo di dimostrazione "per inverso" a opera del padre gesuita Giovanni Girolamo Saccheri (1667-1733), che seppure non coronato da successo apre la strada a Bolyai e Lobachevsky e alla fondazione, nel primo quarto del diciannovesimo secolo, della prima geometria non euclidea (geometria iperbolica). Seguita, nella seconda metà dello stesso secolo da quella di Riemann (geometria ellittica, la più adatta a essere integrata nella futura teoria della relatività generale di Einstein).

Su questa base, della coesistenza di tre sistemi geometrici, l'euclideo e due non-euclidei, ugualmente dotati di coerenza scientifica ma non sovrapponibili tra loro, Poincaré arrivò pian piano a scartare le categorie del soggettivo (giudizio sintetico a priori kantiano) e dell'oggettivo (verità sperimentale) nella geometria e a definirne gli assiomi come convenzioni.

"Quale delle due geometrie è vera: quella di Euclide o quella di Riemann?" si chiese Poincaré.

La domanda, si rispose, è senza senso. Una geometria non può essere più vera di un'altra, può essere soltanto più utile. La geometria non è vera, è vantaggiosa.

Dopodiché Poincaré passò a esaminare la natura convenzionale di altri concetti scientifici e a dimostrare che non esiste un modo più vero di un altro per misurare entità come, per esempio, lo spazio e il tempo. Ancora una volta, il metodo adottato è solo il più utile.

E i fatti? Le ipotesi?

Poincaré scrisse: "Se un fenomeno ammette una spiegazione meccanica completa, ne ammetterà anche tantissime altre che potranno spiegare ugualmente bene le particolarità rilevate dall'esperimento".

Un altro cerchio dell'esperienza di Fedro si chiude agli occhi di Pirsig. Poincaré aveva raggiunto le stesse conclusioni che avevano provocato l'allontanamento di Fedro dall'università.

Poincaré si dedicò poi alla ricerca del modo in cui uno scienziato arriva a selezionare i fatti e le ipotesi, giungendo alla conclusione che la selezione viene operata da quello che definì "io subliminale", un'entità corrispondente a ciò che Fedro aveva chiamato consapevolezza pre-intellettuale.

Le soluzioni matematiche vengono selezionate dall'io subliminale sulla base della "bellezza matematica", dell'armonia di numeri e forme, dell'eleganza geometrica.

Sulla base cioè di quella bellezza dell'estetica classica definita da Fedro così sottile da sfuggire allo spirito romantico, interessato solo alla bellezza dell'apparenza immediata.

La realtà oggettiva non sono i fatti, ma le relazioni tra le cose che sfociano nell'armonia universale.

I colleghi scienziati di Poincaré definirono "convenzionalismo" la sua teoria della preselezione dei fatti su base qualitativa e di conseguenza, ai loro occhi, fondata sul principio di soggettività: "è vero quel che piace". E non osservabile.

Si ostinavano cioè a ignorare il dato palese che nemmeno il loro stesso "principio di oggettività" è un fatto osservabile, e pertanto, sulla base dei loro stessi criteri, dovrebbe essere messo in uno stato di giudizio sospeso.


Slide dal sito slideshare

Poincaré si arrestò qui, senza indagare fino in fondo le implicazioni metafisiche di quel che sosteneva. E qui andò a innestarsi, senza sapere di Poincaré, la fase metafisica della ricerca sulla Qualità di Fedro, che stabiliva come non soggettiva l'armonia di cui parlava Poincaré. E' anzi la fonte di soggetto e oggetto ed esiste in un rapporto anteriore ad essi. E neanche è arbitraria. E' anzi la forza che si oppone all'arbitrarietà; il principio ordinatore di tutto il pensiero scientifico e matematico che distrugge l'arbitrarietà, e senza la quale non può procedere alcun pensiero scientifico.

Applicato alla manutenzione della motocicletta, o ad altre attività pratiche, tutto questo si traduce nell'idea che la conoscenza classica, strutturata, dualistica [Separazione di soggetto e oggetto, osservatore e osservato], benché necessaria non è sufficiente. Bisogna avere almeno in parte il senso della qualità del lavoro. Che è il risultato diretto del contatto con la realtà fondamentale - la Qualità - che in passato la ragione dualistica ha cercato di nascondere.

Al momento della Qualità pura soggetto e oggetto sono identici. Questa è la verità tat tvam asi [tu sei quello] delle Upanishad, ma sta anche alla base della capacità artigianale in tutte le arti tecniche. Ed è questa identità che manca alla tecnologia moderna, concepita dualisticamente. Chi crea la tecnologia non sente con essa alcun particolare senso di identità. Lo stesso vale per chi la possiede e chi la usa. Il risultato è una patina di squallore così deprimente che per renderla accettabile è necessario ricoprirla con una vernice di "stile". E questo, per chi è sensibile alla Qualità romantica, non fa che peggiorare le cose.

La soluzione è fondere alla radice la Qualità classica e la Qualità romantica attraverso il terzo elemento che le precede e origina: la Qualità pura.

La fusione tra Qualità romantica e Qualità classica la si può vedere davvero realizzata in un certo tipo di meccanici e tecnici. Dire che questi meccanici non sono artisti significa fraintendere la natura dell'arte. Tengono al loro lavoro, hanno pazienza, mettono attenzione in ciò che fanno, ma soprattutto posseggono una sorta di pace mentale interiore, non indotta, ma derivata da una sorta di armonia con il lavoro in cui non c'è né chi dirige né chi esegue.

Rientro qui adesso, per un momento, nel mio personale Chautauqua, già affiorato, di quando in quando, nei post precedenti.

Pensavo, mentre scrivevo, che questo discorso sulla differenza tra Qualità classica e Qualità romantica lo avevo già trovato espresso altrove, sebbene in forma diversa. E proprio il nome Einstein mi ha riportato alla mente dove.

Trova posto, da tempo immemore, nello scaffale più propriamente scientifico della mia biblioteca personale, un'opera del 1957 del fisico Max Born che riunisce venti dei suoi articoli. L'edizione italiana che ho io, della Sansoni, è del 1961 e si intitola La fisica e il nostro tempo.

Ecco cosa riporta il libro a poche pagine dall'inizio, in un articolo del 1921 sulla teoria della relatività di Einstein:

Suoni inaudibili, luce invisibile, calore insensibile. Questo è il mondo della fisica, freddo e morto per colui che sente la natura come vivente, intende le sue connessioni come armonia, ne ammira in adorazione la grandezza. Goethe ha detestato questo mondo irrigidito; la sua acerba polemica contro Newton, nel quale egli vide la personificazione della idea di una natura nemica, prova che qui si tratta di qualcosa di più che una materiale disputa di due studiosi su singoli problemi della teoria dei colori. (...) Il formalismo logico, l'astratto non ha alcun ruolo nella immagine del mondo di uno spirito [quello di Goethe] così dotato o addirittura ispirato; l'universo come somma di astrazioni, solo direttamente connesse con l'esperienza, gli è estraneo. Solo ciò che è dato direttamente dall'Io, ciò che può essere avvertito come esperienza o per lo meno immaginato come possibile esperienza, è per lui reale e importante. Al lontano lettore che domina lo sviluppo compiuto dai metodi esatti nei secoli successivi e giudica dai frutti la loro potenza e il loro significato, i lavori di storia naturale di Goethe appaiono come documenti di visioni di profeti, espressione di una meravigliosa connessione dei nessi della natura; ma le sue idee fisiche appaiono degli equivoci e delle infruttuose ribellioni contro una potenza superiore, la cui vittoria era già decisa.
In che cosa consiste dunque questa potenza, quali sono le sue armi?
Esse sono una presunzione e una rinuncia allo stesso tempo. Le scienze esatte pretendono di ottenere asserzioni obbiettive, ma rinunciano alla loro validità assoluta. Il contrasto che ne consegue può essere indicato in questa forma.


Mi fermo qui, per il momento, ma tornerò ancora su questo brano di Born, importantissimo, in altra parte del mio Chautauqua. Metteteci un segnalibro.


* * *


Nota: Questo post sintetizza la parte del libro compresa all'incirca tra le pagine 251-289 dell'edizione Adelphi (1981, 1990), tradotta da Delfina Vezzoli. Tutte le citazioni dirette sono in corsivo.

Per la citazione da Max Born: Max Born, La fisica e il nostro tempo. Sansoni, Firenze 1961; pag. 12-13. Traduzione di Carlo Carlà.

L'immagine di apertura del post è: Odilon Redon, Panneau décoratif (1902, detail).
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