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Rilke e Hopper tra visibile e invisibile (Re-edit, seconda parte)




Questo post avrebbe dovuto comprendere, nelle mie intenzioni iniziali, tutta la parte dedicata soprattutto a Hopper. Ho invece deciso di fondere il testo originale del 2011 con quello di due miei post su Hopper che avevo scritto nell'anno precedente: Testamento in due atti e Il cantore del mana americano. Questo significa che la parte su Hopper non solo si è allungata di un bel po' ma è anche diventata più variegata. Questo post in particolare presenta il re-edit della prima parte di Testamento in due atti, che proseguirà nel prossimo post congiungendosi a Il cantore del mana americano. Il tutto, intervallato, in corso d'opera, da raffronti con Rilke.



Testamento in due atti / inizio

da: Power Spot - Il BLuOGo di Potere, 11/06/2010 (con aggiunte)

"Maybe I am not very human - what I wanted to do was to paint sunlight on the side of a house." (Edward Hopper)

"Forse non sono molto umano...". Non è forse questo che ci comunicano, senza eccezione alcuna, i protagonisti umani dei dipinti di Edward Hopper? Avete mai provato a immaginare di interagire con uno di loro? La mia sensazione è che potrebbero presentarsi a noi con qualcosa del tipo: "Scusi, sa, ma io non sono molto umano". Per questo non mi convince completamente la tesi che quella rappresentata da Hopper sarebbe la moderna umanità alienata, fuori posto sia nel mondo naturale sia nella realtà artificiale delle grandi città. Non nego che sia così, ma secondo me c'è anche dell'altro, e forse molto altro.
A me sembra, per cominciare - e qui arriviamo alla seconda parte della citazione: "...quel che mi interessava fare era dipingere la luce del sole che colpisce la parete di una casa." - che questa umanità non molto umana appaia in realtà come sottomessa per natura, alla stregua di certe specie di insetti o di rettili e al pari di quasi ogni altra cosa presente nei quadri di Hopper, allo strapotere della luce.

Per questo motivo, perché sembra in grado di esemplificare meglio di ogni altra sua opera questa poetica della potenza della luce, vedo Sun in an empty room (il dipinto in alto sotto il titolo) come il testamento artistico di Hopper. O meglio, il testamento con la maiuscola, per distinguerlo dal suo ultimo quadro, Two comedians, dove il saluto finale di Hopper - e consorte - dalla scena della rappresentazione, ha più che altro, soprattutto in virtù del titolo, il sapore di uno sberleffo.

Non può essere quindi un caso che Sun in an Empty Room, cada in un periodo così avanzato della produzione di Hopper: poco prima del suo congedo dall'arte e dalla vita, l'artista sceglie di denudare la sua opera e mostrarne, nei limiti del possibile, il nucleo irriducibile.
Per questo Sun in an Empty Room non sarebbe potuta arrivare prima di quel momento: difficilmente Hopper, dopo quest'opera, avrebbe potuto produrre opere di livello pari o superiore; se fosse esistita troppo presto, ciò che sarebbe venuto dopo, avrebbe rischiato di apparire riempito di superfluo e svuotato, almeno in parte, di significato. Inoltre, se collegata a questo dipinto, è la stessa Two Comedians, opera di per sé poco memorabile, ad assumere un senso più preciso e particolare. Immaginiamo di riempire lo spazio sopra la testa di Hopper - che si appresta a lasciare, insieme alla moglie, la nuda scena in cui è immerso - con uno di quei balloon dai bordi irregolari che nei fumetti mostrano cosa uno stia pensando. Io lo riempirei con queste parole: In realtà è sempre stato tutto così semplice fin dall'inizio - una fonte luminosa, uno spazio vuoto, una superficie liscia - ma la parte che dovevo recitare era così lunga che ho dovuto rimpolpare il canovaccio... per non annoiarvi troppo.



Non a caso, anche Sun in an Empty Room è un dipinto dall'impianto teatrale. Sulla scena, al posto dei protagonisti umani, c'è l'attrice prediletta di sempre, la luce, mentre la scenografia consiste dell'ultima, ineliminabile, quinta della rappresentazione figurativa: una fonte di luce (il mondo dietro la finestra), uno spazio che la luce possa attraversare, una superficie da cui la luce sia riflessa. Se manca anche solo uno di questi tre elementi non è possibile nessuna rappresentazione del reale.
Ma la spoliazione qui non riguarda soltanto gli elementi generali della pittura di Hopper. Gli oggetti rappresentati nell'opera sono ugualmente coinvolti nel processo. Nessuno potrebbe dire, senza conoscerne la provenienza, che vi sono raffigurati una casa americana o una natura americana. E poiché la perdita di dettaglio, la riduzione all'essenziale, è qui anche un movimento verso l'universale, una simile spoliazione fa sì che Sun in an Empty Room sia anche l'opera più universalmente riconoscibile di Hopper. La stessa regola può valere del resto in narrativa: la descrizione "un bosco fitto di alberi" risulta familiare a tutti, mentre leggere "un bosco fitto di lecci" causerà inevitabili problemi di visualizzazione a più di uno.


Guardare tuttavia a quest'opera solo galleggiando sulla superficie della tela, ci impedisce di coglierne altri aspetti fondamentali, poiché questa opera di spoliazione può essere trasposta anche a un livello più profondo. Si potrebbe perfino guardare a Sun in an Empty Room come a un particolare tipo di autoritratto: mettendo sulla scena gli elementi essenziali della sua arte, Hopper vi traspone allo stesso tempo gli elementi essenziali della sua persona, o, almeno, fa un chiaro tentativo in quella direzione, in direzione cioè della chiusura del cerchio. Vale a dire che le parole della citazione mostrano che Hopper inizia con il riconoscere se stesso come un enigma vivente (e questo sembra riflettersi nel continuo punto di domanda che abita tutte le figure umane dei suoi quadri). A livello esteriore, la sua ricerca si manifesta nel tentativo di restituire su tela la luce riflessa su una parete; a livello interiore, nel tentativo di rispondere al perché di una fascinazione che ai propri occhi lo pone in una condizione a parte da quella dei suoi simili, fino al punto da spingerlo a ritenersi diverso da loro: non molto umano. Hopper può richiudere il cerchio solo nel momento in cui è in grado di riconoscere l'identità assoluta che sussiste tra la quinta essenziale della sua pittura e la quinta essenziale della sua persona.


* * *

La non-umanità di Rilke, che traspare così nettamente dalla sua tarda produzione poetica, diventa invece uno degli argomenti di una lunga, notevole lettera scritta da Marina Cvetaeva a Boris Pasternak in data 23 maggio 1926 (precedente, quindi, di pochi mesi la morte di Rilke). A un certo punto la poetessa russa descrive la propria avversione per il mare:
Ma una cosa, Boris: io non amo il mare. Non posso. Tanto spazio, e non ci si può camminare. Primo. Lui si muove e io guardo. Secondo. Boris, ma questa è sempre la stessa scena, cioè la mia obbligata e evidente immobilità. La mia inerzia. La mia - che io voglia o no - pazienza. E di notte! E' freddo, invisibile, non-amante, pieno di sé - come Rilke! (Di sé o di divino - è lo stesso.) *

E alcuni paragrafi dopo, nella stessa lettera:
A Rilke non scrivo. E' una tortura troppo grande. E sterile. Mi fa perdere il filo, mi distrae dalle poesie. Come trattare uno che è divenuto il tesoro dei Nibelunghi? A lui non serve e a me fa male. Non sono meno grande di lui (nel futuro), ma sono più giovane. Di molte vite. La profondità dell'inclinazione è la misura dell'altezza. Lui si è profondamente inchinato su di me - forse più profondamente di... ma non importa! - e che cosa ho provato? La sua altezza. La conoscevo anche prima, adesso la conosco sulla mia pelle. *

Come ho scritto nel post precedente, il mio intento principale in questa serie di post è quello di fare incontrare Rilke e Hopper, mettendone soprattutto in risalto gli esiti comuni. C'è tuttavia una differenza cruciale tra loro che voglio sottolineare fin da adesso: mentre la ricerca del poeta praghese è metodo dichiarato, Hopper sembra piuttosto ubbidire in modo istintivo alla necessità della sua arte, così come i soggetti umani delle sue opere soggiaciono alla potenza della luce.
Molto diverso è anche l'epilogo delle loro vite. Hopper, in Two comedians, non lascia la scena in solitudine ma insieme alla moglie Jo. Rilke, nei mesi di degenza al sanatorio dove sarebbe morto per leucemia, lottò per morire solo, respingendo anche la richiesta della ex moglie Clara di poterlo andare a trovare. Sua principale compagnia furono, in quei mesi, le sura del Corano. Hopper richiese inoltre di morire, e fu accontentato, non in un letto di ospedale ma nel suo studio, circondato dalle sue tele e dagli strumenti del suo mestiere. Rilke cercò di morire il più appartato possibile dall'amato visibile:

Ricordi non trascino in queste fiamme.
O vita-vita: Essere-Fuori. Ed io
nella fiamma. Nessuno mi conosce. **

Recita, tra le altre cose, l'ultima annotazione sul suo ultimo taccuino.

 2 - continua


* Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno - Lettere 1926; Editori Riuniti 1980, pagg. 82-3. Ed. italiana a cura di Serena Vitale.

** Poesie sparse, 130. In: Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926; Einaudi tascabili 2000, pag. 567. A cura di Andreina Lavagetto.

- Le opere di Edward Hopper pubblicate in questo post sono, dall'alto in basso:
  • Sun in an Empty Room (1963)
  • Two Comedians (1965)
  • Hopper's Hat on His Etching Press (non databile)

Commenti

  1. Belli i passaggi di questa "teatralità" nell'urgente pittura di Hopper. Per mia "deformazione" non posso che amare questi aspetti della sua pittura. Ricordo che di Hopper esiste più di un dipinto con interno di un teatro. E sempre questo isolamento nel quale sono calati coloro che lo animano. Quello che definisci il suo "testamento" poi è probabilmente IL dipinto per eccellenza di questo straordinario artista.
    Seguo il parallelo con Rilke con molto interesse.

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    1. Ho notato lo spazio sul tuo blog, Luz. Io ho tentato due volte la strada del teatro, ma alla fine mi sono dovuto arrendere all'evidenza che non sarei mai riuscito a dedicargli l'attenzione e l'impegno richiesti.
      Riguardo al parallelo con Rilke, non è per niente facile integrare fra loro post scritti in anni diversi, farne un unico discorso e in più renderli compatibili con il mio modo attuale di fare blogging. Comunque, a differenza che con il teatro, qui sono fiducioso sul riuscire a portare a buon fine l'impresa ;D

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  2. Riduzione al minimo, per sottrazione, che si fa "universale": punto di contatto tra invisibile e visibile, micro e macrocosmo?
    Bellissimo il passaggio sul mare della Cvetaeva: la sua avversione, per gli stessi motivi, in me diventa fascinazione.
    Ivano, facci sognare! *___* Bellissima questa nuova serie di post!

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    1. Grazie Glò! *__* Certamente questa è una delle serie più impegnative che abbia mai affrontato, ma il fatto che sia così apprezzata ripaga dello sforzo.
      Quello che mi interessa soprattutto è offrire suggestioni, spunti, che ognuno possa poi rielaborare a suo modo, secondo il proprio punto di vista.

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  3. Mi aggiungo agli altri commentatori: molto interessante questo tracciare un legame fra il modo d'essere dei due artisti e l'espressività iconica della loro personalità negli elementi ricorrenti (diciamo pure ossessivi) della loro produzione letteraria / pittorica, finendo poi col tracciare un ulteriore legame fra i due artisti e il loro approccio alla vita (o piuttosto alla morte) e alla loro creatività.

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    1. Grazie Ariano :))) Mi piace percorrere strade inesplorate e proporre nuovi possibili punti di vista e interpretazioni. E' una delle ragioni profonde per cui questo blog esiste :-)

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  4. Il fatto è che mi rendo conto di come le persone che disegnano, dipingono, pitturano (mi esprimo così per poter includere anche me perché dirmi artista sarebbe una blasfemia) siano/siamo schiave e figlie della luce.
    La luce è in tutto e parlo di una luce naturale non divinamente trasfigurata ma naturalmente trasfigurante; su Twitter ho scritto una frase che mi è venuta in mente ieri: 'a dynamic world of colours shaped by the light' che non so quanto sia corretta a livello grammaticale ma che racchiude il senso che per me sta acquisendo la luce e la sua potenza.

    La non-umanità nel caso di Hopper probabilmente è proprio questo interesse verso la cosa più scontata ma anche più sublime che attraversa tutta la nostra realtà sensibile, questa lontananza dai grandi temi attuali, dalla filantropia in senso stretto per abbracciare qualcosa di molto più semplice ma immensamente più maestoso.

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    1. Condivido al cento per cento la tua visione nella non-umanità di Hopper, Alessia, data proprio dal suo accogliere qualcosa di immensamente più vasto.
      Poi, probabilmente la luce naturale altro non è che l'ombra di quella divina. Ricordo una poesia del grande poeta giapponese Takahashi:
      "Tremila anni da quando Buddha trovò la stella del mattino. Oggi anche il sole è abbagliato dalla sua luce".

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  5. Questa specifica parte dedicata a Hopper mi fa pensare moltissimo alle parole di un maestro cinese che diceva che fino a una certa età l'arte marziale viene praticata in maniera molto "esterna", visibile e anche con quelli che potrebbero essere chiamati fronzoli (attenzione, sono parole mie, non direttamente del maestro). DOpo una certa età tutto diventa più interiore ma proprio per questo molto più evidente. Io mi ricordo che guardando questo maestro praticare la sua disciplina era chiarissimo il senso del movimento, c'era solo l'essenziale e proprio per questo il senso del movimento emergeva in tutta la sua forza e significato. Sun in an Empty Room mi fa pensare tantissimo a questa cosa.

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    1. Mi cogli preparato sull'argomento Kukuviza, avendo io studiato arti marziali in una scuola che praticava quattro diversi stili che andavano dal più esterno - il tai chi nelle due forme yang e chen - passavano attraverso due stili intermedi - lo sching-chi e il pa-qua - fino ad arrivare allo stile più interno lo y-chuan che infatti era tutto un lavoro sull'energia interna (chi) e si praticava immobili.
      grazie per il commento e buona domenica :-))

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