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Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Un'indagine sui valori /12



Nel post precedente ho accusato Pirsig di aver espresso in termini troppo terra terra il concetto del valore individuale. Lui mi avrebbe forse ribattuto con una delle frasi del suo libro divenute più celebri:

In cima alle montagne non ci sono motociclette e, a mio avviso, ben poco Zen. Lo Zen è "lo spirito della valle", e non quello delle vette.

Oppure: Io sono convinto che la metafisica va bene se migliora la vita quotidiana; altrimenti è meglio lasciarla perdere.

Tutto condivisibile. Ma io ho solo preso nota di un momentaneo cedimento di Qualità persuasiva che si accompagna ad altri nel libro e che spiega cosa intendevo dire quando, all'inizio di questa serie di post, ho scritto che non ero uscito al cento per cento soddisfatto dalla lettura de Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Che rimane comunque per me un caposaldo della letteratura filosofica e uno dei libri più importanti del XX secolo, per la sua capacità di scuotere alle fondamenta le forme acquisite, e sclerotizzate, della mentalità moderna.

Tornando invece alla questione delle vette e della valle, Pirsig attribuiva la rovina di Fedro al suo non esser stato capace di far toccare terra alla seconda sua ondata di cristallizzazione, quella metafisica, che si era invece trasformata in una terza ondata, mistica. Quella che l'avrebbe spazzato via.


Ma prima di questo c'era stato lo scontro finale, da me preannunciato nel precedente post, tra Fedro e l'istituzione universitaria, ed è uno scontro che verte proprio sul Fedro. Che credo sia stato il primo Dialogo di Platone da me letto, sull'onda della lettura di Saggio su Pan di James Hillman, che si apre proprio con una citazione dal Dialogo platonico, che è poi una preghiera, semplice e toccante.

Socrate: O caro Pan, e voi altre divinità di questo luogo, datemi la bellezza interiore dell'anima e, quanto all'esterno, che esso s'accordi con ciò che è nel mio interno.

Questo si trova scritto in apertura del saggio di Hillman, mentre la versione del Fedro che mi accompagna ormai da quasi quattro decenni recita:

Socrate: O caro Pan, e quanti altri dèi qui dimorate, fate che io sia bello di dentro.

Per poi saltare ἔξωθεν δὲ ὅσα ἔχω, τοῖς ἐντὸς εἶναί μοι φίλια e passare direttamente al rimanente della preghiera:

Che io ritenga ricco chi è sapiente e che di denaro ne possegga solo quanto non ne può prendere e portare altri che il saggio.*

Una svista del traduttore?

Con l'ingresso poi nella mia vita de Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, ecco che il Fedro torna sulla scena, introdotto stavolta da parole, quelle di Pirsig, che potevo solo sottoscrivere: Il Fedro è un dialogo che in un primo tempo lascia sconcertati e poi colpisce con forza sempre maggiore, proprio come la verità.

Più o meno il mio pensiero: il Fedro ha qualcosa che ti penetra dentro e dopo non ti lascia più.

Ma chi è Fedro, spalla di Socrate nel dialogo platonico?

Pirsig, a pagina 178 del suo libro, lo introduce così, mentre colloquia con il suo ex collega di università del Montana, De Weese, e la sua cerchia di amici:

Era un antico greco... un retore... uno dei più grandi del suo tempo. Quando si stava inventando la ragione, lui c'era. I retori dell'antica Grecia furono i primi professori della storia del mondo occidentale. Platone li calunniò in tutte le sue opere per tirare acqua al suo mulino, e poiché tutto ciò che sappiamo di loro ci è tramandato quasi interamente da lui, si dà il caso che la storia ci abbia tramandato la loro condanna senza dar loro la possibilità di difendersi. La Chiesa della Ragione di cui parlavo fu fondata sulle loro tombe e si regge ancora oggi sulle loro tombe. E se scavi a fondo nelle sue fondamenta di imbatti nei loro fantasmi.

Altri fantasmi che si sommano a tutti gli altri del libro - le storie di fantasmi che si raccontano i viaggiatori all'inizio del libro, il fantasma di Fedro, il fantasma della razionalità, i fantasmi del mythos - e lo popolano come popolano le nostre menti e le nostre realtà (che discendono da Platone e Aristotele e non da ominidi insipienti terrorizzati dal buio come suppongono i moderni fantasisti). E Pirsig qualifica anche se stesso come uno scavatore di tombe, un archeologo della storia del pensiero.

Il giovane retore Fedro dimostra di prediligere la vita campestre a quella cittadina, ed è in aperta campagna che trascina un recalcitrante Socrate, adulandolo con quella che per lui è la più appetibile delle esche (insieme ai bei giovinetti): un discorso. In questo caso quello sull'amore del retore Lisia.

Ma Socrate esprime comunque le sue rimostranze di rito:

Sii buono con me, mio caro. Io sono appassionato a imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti a insegnarmi alcunché, mentre imparo dagli uomini in città"**

Per poi farsi accompagnare come "uno straniero menato dalla guida" fino al fiume Ilisso. E naturalmente è al corrente del mito collegato al luogo, quello della principessa ateniese Orizia rapita da Borea.


Oswald von Glehn, Borea e Orizia (1879)

Socrate: Non qui, ma più giù due o tre stadi, nel punto [del fiume] che attraversiamo per andare al tempio di Agra. Ci dovrebbe essere proprio là un altare a Borea.

Fedro: Non ci ho mai fatto caso; ma dimmi per Giove, o Socrate, credi tu che questo mito sia vero?

Socrate: Se non ci credessi, come fanno i sottili sapienti, sarebbe del tutto normale: e poi, con dotta sottigliezza, potrei dimostrare come la fanciulla, mentre giocava con Farmacea, fu sospinta giù per le rupi che sono qui intorno da una ventata di Borea, e così dopo la sua morte si raccontò che fosse stata rapita da Borea, sebbene ciò sarebbe potuto avvenire dal colle di Ares, perché c'è anche questa versione, che di là e non da qui, sia stata rapita. Per conto mio, o Fedro, considero queste teorie soprattutto divertenti, ma è pane per gente di genio, che si travaglia assai e non esattamente fortunata, non fosse altro perché dopo ciò spetta loro di interpretare la figura degli ippocentauri e poi quella della Chimera. E già ti precipita addosso una valanga di tali esseri, di Gorgoni e Pegasi, e una assurda moltitudine di mille mostruose e leggendarie creature. Che se qualche scettico vorrà ridurle, ciascuna, alla verisimiglianza, con quel certo tipo di scienza grossolana, gli ci vorrà tempo assai. Ed io non ho certo tempo per queste occupazioni; ed eccone la ragione, mio caro: che non riesco ancora a conoscere me stesso come vuole il motto delfico. Mi sembra proprio ridicolo che io, mentre sono ancora all'oscuro di questo, mi ponga ad indagare problemi che mi stanno di fuori. Donde, lasciando perdere queste storie, e pago dell'opinione comune su di esse, lo ripeto, vado indagando non quelle, ma me stesso, per scoprire se per caso sono un mostro molto più complicato e fumigante di Tifone, o una creatura più amabile e semplice partecipe per natura d'una qualche sorte divina e mansueta....

Questa critica alla logografia, tutta permeata della tipica ironia socratica, pone già in apertura del dialogo la questione della necessità di due alternative. A una scienza grossolana, che riconduce le origini dei miti ai dati dell'esperienza sensibile, e al mito "popolare" di stampo omerico ed esiodeo. L'alternativa alla prima è rappresentata dalla somma delle scienze: la dialettica, i cui criteri metodici sono appunto esposti nel Fedro. L'alternativa alla seconda dal mito orfico-pitagorico, che trova ampio spazio nella parte centrale del Dialogo.   

L’altro Fedro, quello de Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, si sa invece che la dialettica la combatteva, e che non era un lupo altrettanto facile a farsi ammansire del suo omonimo del Dialogo, nemmeno dalla palinodia sull’amore di Socrate.

Ma, secondo Pirsig, aveva le sue ragioni. E come Platone fa dire a Socrate nel Fedro:

...si dice pure che è giusto esporre anche le ragioni del lupo.***


* * *


* Fedro, 229b-230a. In: Platone, Opere complete 3Universale Laterza 1971, pag. 223-24. Traduzione di Piero Pucci.

** Fedro, 230d. In: Ibid., pag. 224.

*** Fedro, 272c-d. In: Ibid., pag. 279.

Le parti interamente in corsivo del post sono citazioni da Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Adelphi 1981, 1990. Traduzione di Delfina Vezzoli.

L'immagine di apertura del post è: Xenia Sease, A Highway to the Rockies (2015, detail). Clicca qui per l'immagine intera.

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