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Alan Moore: Da I Campi di Cremazione a La Testa di Diocleziano (La Voce del Fuoco /2)




Tenebre nascoste dietro tendine di tulle. Follia. Violenza. Anche solo a un esame superficiale, sono queste le tinte predominanti della tela di Northampton.

Alan Moore, La Voce del Fuoco, pag. 313

* * *


Secondo racconto:  I Campi di Cremazione 2500 a.C.
(The Cremation Fields 2500 BC) [seguito]


Come si evince dal titolo, il secondo racconto arricchisce la geografia del libro dei campi di cremazione. Vi svolge un ruolo di rilievo anche il fiume che abbiamo incontrato in precedenza, ma su questo tacerò perché significherebbe rivelare una parte troppo importante di trama. Devo tuttavia citare almeno un altro elemento della storia, che ritornerà più volte nel seguito del libro: una collana di perline di rame di colore blu, che la ragazza protagonista ruba dal collo della figlia di Olun dopo averla uccisa per prendere il suo posto.
Ma più di tutto mi interessa parlare qui del particolare rapporto di simpatia che lega il corpo di Olun alla geografia dell'insediamento. Il corpo del mago è ricoperto dalla testa ai piedi di tatuaggi, che lui chiama "disegni del corvo". La ragazza si interroga a lungo su di essi, finché non riesce finalmente a intuirne la vera natura, dopo un suo colloquio con Tunny il tatuatore (pp. 121-122):
La buia creatura dei miei pensieri avanza ancora nel suo lento strisciare. Le dita del vecchio Tunny conoscono la sottovia, ma questa conoscenza non è nella sua testa. Il vecchio Tunny è il tatuatore. Lui fa le segnature di Olun con le sue dita annerite e quelle, un anno dopo l'altro, ripercorrono quel groviglio di vie dissennate, quei disegni del corvo che non sembrano corvi, ma ora tutto si fa chiaro. Quelle non sono figure di corvi.
Sono quello che i corvi vedono.
Un fiume visto dall'alto diventa una linea, un tortuoso filo blu. I campi sono una coperta di macule con i bordi di rovi, le capanne divengono piccole come anelli per le dita e le foreste avvizziscono e si mutano in grasse lumache verdi con i lati crespi, tutte venate dai sentieri. Ecco come il vecchio conosce le vie e i sentieri più piccoli. Ecco per quale ragione Olun sente che il villatico è parte troppo grande di lui: è inciso tutto sopra la sua pelle. Le colline e gli stagni. Le sottovie. Le grotte e le cave dei tesori. Ecco come vuole parlare con me, quando lui è nella tomba.

Bene. Nel leggere questo splendido brano il mio pensiero è subito corso a una pagina di uno dei miei libri preferiti, Le vie dei canti di Bruce Chatwin. A maggior ragione per il fatto che Alan Moore chiama in causa nel suo libro sia il Tempo del Sogno che le vie dei canti. Il che rende possibile che il suo sia un omaggio intenzionale al grande cantore del nomadismo prematuramente scomparso. Ecco, per un confronto, il brano di Chatwin di cui parlo, i cui protagonisti sono una mercante d'arte aborigena, un pittore aborigeno suo cliente e una coppia di turisti americani:
Il quadro era grande pressapoco un metro e mezzo e aveva uno sfondo 'puntinista' in varie sfumature d'ocra. Al centro c'era un grande cerchio azzurro intorno a cui erano sparsi tanti altri cerchi più piccoli. Ogni cerchio era bordato di scarlatto; un groviglio di linee sinuose di un rosa fenicottero, vagamente simile a un intestino li collegava tutti.
Miss Lacey passò al secondo un paio di occhiali e domandò: "Che cos'hai dipinto, Stan?"
"Formica del miele" mormorò Stan con voce roca.
"La formica del miele" disse lei rivolgendosi agli americani "è uno dei totem di Popanji. Questo è un Sogno formica del miele".
"Mi sembra bellissimo" disse l'americana con aria pensosa.
[...]
"Ma nel quadro io non ne vedo, di formiche" disse l'uomo [della coppia americana]. "Vuol dire che è... è un formicaio? I tubi rosa sono i cunicoli?"
"No". Mrs Lacey sembrava un po' scoraggiata. "La tela raffigura il viaggio dell'Antenato Formica del miele".
"Come una cartina?" disse lui con un largo sorriso. "Ah, ecco, mi pareva proprio che somigliasse a una cartina".
"Esattamente" disse Mrs Lacey. *

Ma c'è un secondo possibile riferimento a Chatwin nei primi capitoli del libro di Moore. Per Chatwin il nomadismo è la condizione naturale dell'uomo e la stanzialità qualcosa di paragonabile, in termini religiosi, alla perdita dell'Eden. Come ho mostrato nel precedente post della serie, lo stesso confronto e analoghe conclusioni sono esposte ne La Voce del Fuoco.


* * *


Terzo racconto:  Le Terre degli Annegati Dal 43 d.C.
(In the Drownings Post AD 43)


Dopo due lunghi racconti, un racconto breve: una storia di taglio onirico di appena una dozzina di pagine ma comunque densa, come tutte le altre del libro, di collegamenti alle storie precedenti e successive.
Protagonista, stavolta, è un uomo che ha abbandonato la sua famiglia e il villatico, il grande abitato rotondo costruito su uno dei colli che sorgono nei pressi dei Campi di Cremazione, per raggiungere le Terre degli Annegati, a più di mezza giornata di cammino, e costruirsi una nuova vita, con una nuova famiglia. E' così che rievoca, con il pensiero, il momento della sua partenza:
Accanto alla porta grande, tra le vecchie pietre erbose della fucina di fabbro Garn, vidi che il mago del nostro villatico fissava il suolo tutto assorto, piegando le gialle corna di cervo legate alla sua fronte china. Disposti a cerchio intorno ai suoi piedi, c'erano molti disegni che egli aveva tracciato in terra con il suo ramo di vischio. Borbottava tra sé e sé e con le dita macchiate torceva i nodi della sua barba, più angustiato di quanto lo avessi mai visto. Poi alzò lo sguardo all'improvviso e mi vide passare. Forse per parlarmi, ma poi cambiò idea. Mi sono chiesto spesso cosa volesse dirmi. (Pag. 126)

Per cacciare prede con la sua cerbottana, l'uomo si è inventato un'armatura di giunchi che, unita ai trampoli, lo fa somigliare a un enorme uccello di palude. Storicamente parlando, siamo ai tempi dell'imperatore Claudio (Tiberio Claudio Druso), che dette inizio, nel 43 d.C., alla conquista romana della Britannia. Non sorprende quindi che una guarnigione di soldati romani a cavallo si trovi a passare proprio nei paraggi delle Terre degli Annegati, come non sorprende che fugga terrorizzata alla vista dell'uomo-uccello.

Ma era anche successo, una volta, che il cacciatore vestito da uccello sentisse nostalgia della sua prima famiglia e del villatico sulla cima del colle. Vi fece così ritorno. Ma al suo arrivo trovò tutto come abbandonato in fretta e furia (Pag. 132):
I fuochi della cena bruciavano bassi e in qualche punto lontano, in mezzo alle capanne, mi sembrò di sentir abbaiare un cane, anche se ora ricordo che l'odore di cane aleggiava ovunque. Forse fu quell'odore a farmi pensare di aver sentito i latrati.
Subito dietro la grande porta aperta, le pietre reliquie della fucina di fabbro Garn attirarono la mia attenzione. La terra al centro, dove il muschio diventa di un verde più vivo, era ora segnata da un'orrida bruciatura nera.
[...]
Dopo qualche tempo, mi sedetti al centro delle pietre in forma-d'uomo disposte davanti alla nostra porta. Ne raccolsi una e la guardai. Era grande al massimo quanto il mio pollice e si slargava tanto in alto quanto in basso, mentre la strettoia al centro poteva ricordare un collo. Sulla protuberanza più piccola erano incise le linee di una faccia. La mia volontà era stata quella di farla sorridere ma, quando girai il ciottolo cercando la luce della sera, scoprii di essere stato maldestro con il punteruolo, per cui sembrava ora che quell’uomo urlasse qualcosa in eterno, parole che non sarebbero mai arrivate alle mie orecchie.
Quando toccai la pietra, nella mia fantasia mi parve che quella recasse ancora il calore della mano di mio figlio, e la portai al naso per sentirne l’odore. Allora, la ragione mi abbandonò. Infilai il ciottolo in bocca e cominciai a piangere.

Il cacciatore ha infine compreso quel che aveva da dirgli il mago al momento in cui aveva lasciato il villatico. Ma non è neanche questo il principale "colpo di scena" del racconto, bensì un altro che mi guardo bene dallo svelare qui.


* * *


Quarto racconto:  La Testa di Diocleziano  Dal 290 d.C.
(The Head of Diocletian Post AD 290)


Nel quarto racconto, narrato come tutti gli altri del libro - ormai lo si sarà capito - in prima persona, protagonista è un ispettore del tesoro inviato da Roma su richiesta del tesoriere Quinto Claudio. Lo stesso Quinto Claudio lo invia poi da Londinium fino alla regione che sappiamo, per verificare una storia di presunta falsificazione di moneta imperiale.
Sono gli anni della diarchia voluta da Diocleziano, che nel 285 nominò suo vice Massimiano, per poi elevarlo alla carica di Augusto nell'anno successivo. O siamo forse già nella fase successiva del suo regno, nell'epoca della tetrarchia, in carica dal 293 al 305, quando ai due Augusti, Diocleziano e Massimiano, si aggiunsero due Cesari: Costanzo Clorio, nominato da Massimiano, e Galerio, nominato da Diocleziano.
Diocleziano aveva soggette a sé le province orientali e l'Egitto; Galerio le province balcaniche. Massimiano governava l'Italia, l'Hispania e le province dell'Africa settentrionale escluso l'Egitto; Costanzo Clorio la Gallia e la Britannia.
Comunque sia, nella Britannia del racconto capita già di imbattersi in insediamenti cristiani, sviluppatisi all'interno di una comunità essenzialmente pagana e ancora guardati con diffidenza, dai pagani indigeni come dai romani.
Con analoga diffidenza, del resto, i pagani indigeni guardano alla presenza tra loro degli invasori romani, sebbene almeno un abitante del villaggio in cui ha preso dimora accetti di buon grado di parlare con l'ispettore del tesoro. Questi si trova così messo al corrente di una diceria, tale da distrarlo per il momento dal suo compito e spingerlo a vegliare di notte all'aperto nei pressi di un antico insediamento, nonostante un forte mal di denti lo affligga dall'inizio della sua trasferta.
…non lontano da qui, continuando a salire dopo i campi di cremazione, si incontra un colle dove c’è un villaggio antico, divorato dalle erbacce cresciute per centinaia d’anni sui suoi dossi e i suoi fossati. Un insediamento, così lo ha chiamato. La storia narra che, una notte, decine e decine di persone furono divorate da un branco di cani giganti che non lasciarono neanche un capello o una goccia di sangue a testimoniare la loro esistenza. […] Alcune notti in cima alla collina si riescono a scorgere gli occhi infuocati di mostruosi segugi e il loro sguardo è talmente intenso e terribile che rischiara il cielo. Ora li sto cercando, ma non trovo nulla. (Pag. 137)

Sta per rinunciare e tornarsene alla taverna e al suo letto, quando si accorge di qualcosa:
Sono luci. Lassù, dietro i campi dove bruciano i loro morti e li riducono in cenere ed ombra. Luci sulla collina, ma a sprigionarle non è un branco di cani, a meno che non camminino su due zampe.
Li ho trovati.
(Pag. 138)

Ma poi pensa che sia meglio non fidarsi dei propri occhi, né conveniente correre il rischio di sfidare il fato, e decide di andarsene e tornare l’indomani, per una verifica alla luce del sole.
Ritorna così alla sua stanza, al cui interno trova ogni giorno nuove tracce della ragazza che la occupava prima di lui. Tra di esse, una vecchia collana rugginosa con una fila di perline blu.
Si corica infine, e comincia a riflettere sulla malattia che ha colpito lui e gli altri ispettori inviati con lui da Roma. Il forte mal di denti ne è uno dei sintomi (Pag.143):
Forse noi siamo a tal punto appendice di Roma, che ci ammaliamo quando lei cade ammalata. Forse ci lega un vincolo bizzarra una simpatia tra carne e terra.

La storia prosegue poi con l'apparizione di una ragazza, che l'uomo scambia per la ex inquilina della stanza. Le sue fattezze, però,
…sono più piccole, più tese di quanto non ricordassi, e ora mi sembra tutt’altra persona. Non la riconoscerei neanche, se non portasse quella collana di perle blu, con quel filo di rame lucente.

Comunque sia, acconsente a seguire l'apparizione, che lo guida fino al centro della labirintica capanna di Olun, dove un circolo di persone siede intorno a un fuoco basso. Sono tutti protagonisti dei racconti precedenti. Oltre a uno spaventoso uomo-uccello, vi sono, tra gli altri, un bambino dalla gola squarciata e una vecchia megera senza un piede, collegati a due dei leit-motiv del libro: la gamba mutilata o comunque paralizzata e il collo che viene o strozzato o tagliato, in parte o completamente. La stessa testa di Diocleziano, riprodotta su una delle due facce della moneta, fa parte di questo secondo leit-motiv.
Dall'esterno della capanna proviene intanto un'assordante latrato di cani che si fa sempre più vicino. Finché...
Strappo al mio incubus il respiro che mi ha rubato e mi sveglio nel grigio mattino della mia stanza.
Ho qualcosa in bocca.
Sono colto da un terrore improvviso e sputo quell'affare, temendo si tratti del sassolino che ho visto in sogno, quella forma d'uomo con gli occhi scarabocchiati e le fauci spalancate, ma no. E' un dente.
(Pag. 144)

Come abbiamo visto, l'ispettore del tesoro interpreta, per analogia, la propria malattia come un segno della decadenza di Roma stessa. La prova tangibile di questa decadenza la incontra poi il mattino successivo, quando sale sul colle dove ha visto brillare i fuochi notturni, nel tentativo di risolvere il loro mistero. Quello che scopre equivale per lui a
…un incubus che strappa il respiro. È un orrore senza fondo. (Pag. 149)

* * *


* Bruce Chatwin, Le vie dei canti. Adelphi, 1988; pp. 41-42. Traduzione di Silvia Gariglio.

Dove non diversamente indicato, le citazioni sono tratte da: Alan Moore, La Voce del Fuoco. Edizioni BD, 2006. Traduzione di Leonardo Rizzi e Michele Foschini; editing a cura di Adriano barone e Andrea Carlo Ripamonti.

L'immagine in alto sotto il titolo è un dipinto di Samantha Keely Smith. https://samanthakeelysmith.com/

Le due immagini che accompagnano le sezioni riguardanti i capitoli del libro, sono di José Villarrubia e sono tratte dall'edizione inglese dell'opera.

Commenti

  1. Quanto fascino in quel brano di Chatwin, quanta verità nel principio generale che affida al nomadismo l'essenza vera dell'umano.
    Del primo racconto la citazione del corpo coperto di tatuaggi mi ha fatto tornare in mente I racconti del cuscino di Peter Greenaway.

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    1. Attenzione, però. E' vero che l'indice di felicità è in genere considerato più alto nelle popolazioni nomadi, però secondo i dati storici e antropologici le civiltà di tipo superiore (o comunque definite tali) richiedono, per svilupparsi, alcune condizioni di base: la stanzialità e uno spazio racchiuso, geograficamente o politicamente, entro confini ben definiti e solidi.

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  2. Leggendo il tuo post, mi è venuto in mente che anche la storia di Caino e Abele viene spesso letta come una metafora del mondo stanziale che prevale su quello nomade. Difatti... siamo quasi tutti figli di Caino. Questo libro sembra davvero interessante, comunque, un riuscito mix di storia e folclore. Aspetto il seguito.

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    1. Sì, ricordo di aver letto una volta qualcosa su questa interpretazione del mito di Caino e Abele in termini di scontro tra due visioni del mondo.
      Il libro è davvero riuscito, Simona, e l'idea di scavare nel sostrato mitico del luogo in cui si è nati e cresciuti è assai affascinante.

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  3. Man mano che leggo i tuoi riassunti dei racconti comincio a capire il meccanismo scelto da Moore.
    Si può definire come una versione narrativa dello stesso espediente usato da Max Klinger nel disegno con la sua serie di disegni su un paio di guanti che cambiano proprietario? Con la differenza che qui non c'è un unico oggetto ma parecchi?

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    1. Non sono solo gli oggetti a risalire il corso del tempo e a cambiare di proprietario qui, ma anche i temi che si ripetono e i protagonisti dei racconti che infestano i sogni dei personaggi successivi. In più tutto verte su uno stesso luogo che, un passo alla volta, da villatico sul colle diventa l'abitato di Northampton.
      Il meccanismo di Klinger, del capo di abbigliamento che passa di proprietario in proprietario, è stato ripreso, qualche annetto fa, anche in un delizioso film olandese: "De Jurk" (Il vestito) ;-)

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  4. Sei riuscito ad affascinarmi completamente, credo di volere il libro.

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    1. Non perdere tempo, allora, Tenar. Anche perché poi, il primo settembre, esce in Italia "Jerusalem", sempre ambientato a Northampton e lungo il doppio di "Guerra e pace" :O

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  5. Una scrittura visionaria e catturante come il tuo articolo. Lo segnerò nel mio quaderno sui libri da desiderare.

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    1. Ah ah! Potrei fare il copia-incolla della risposta a Tenar. Sbrigati a realizzare il desiderio, Cristina: "Jerusalem" incombe e da quel poco che ne ho voluto sapere ho capito che nella sua quantità sterminata di pagine c'è tutto e ogni altra cosa *__*

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    2. Ahahaha! Devo specificare che trattasi del quaderno sui libri da desiderare, quindi non necessariamente da comprare - almeno non a breve. Ho messo un lucchetto al mio portafoglio per il momento. ;-)

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  6. Credo proprio che per l'idea della collana di perline blu Moore abbia preso ispirazione dai Silmaril di Tolkien, che nel Silmarillion sono il filo conduttore delle varie storie narrate.

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    1. In realtà, Marco, la collanina di perle blu non è un vero filo conduttore ma fa capolino qua e là e soltanto in poche storie. Altri temi del libro, per esempio quello degli shagfoal, ricorrono in misura assai maggiore.

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    2. Stessa cosa nel Silmarillion. Compaiono solo in alcuni dei racconti.

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    3. Stessa cosa che mi hai scritto tu di là... non conosco e posso solo fidarmi ;-)

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