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Trilogia delle Madri /19: Sulle rive del Mar Nero /2



Risalendo dalla Colchide l'intera costa orientale del Mar Nero, e continuando poi verso ovest, incontriamo, più o meno al centro della costa settentrionale, la penisola conosciuta oggi come Crimea, ma che gli antichi Greci chiamarono Chersoneso taurico o Tauride. E' in questa terra remota che Oreste, insieme all'inseparabile amico Pilade, approda di nascosto dopo aver lasciato Argo su una nave condotta da cinquanta vogatori, per adempiere a un nuovo compito assegnatogli dal dio Apollo: raggiungere non visto il tempio di Artemide, trafugare la statuetta lignea della dea custodita al suo interno, e portarla in terra greca, in un luogo ove scorre un fiume alimentato da sette sorgenti. Ma nonostante tutte le loro cautele, i due amici finiscono per essere scoperti da dei pescatori, catturati e condotti al cospetto del re dei Tauri, Toante, che destina loro il trattamento riservato a tutti gli stranieri: essere sacrificati alla principale divinità del luogo, che è appunto Artemide. Oreste e Pilade si ritrovano così condotti, da prigionieri, nello stesso tempio che aspiravano a raggiungere in segreto e al cospetto della statua che volevano trafugare, ai piedi di un altare ornato di teschi umani.

Presiede i sacrifici nel tempio una sacerdotessa che è a sua volta un'ellena e che, incuriosita dai due stranieri, inizia a interrogarli. E' Ifigenia, figlia primogenita di Agamennone e Clitemnestra, ed è inevitabile che la progressione delle domande porti infine alla scoperta che Oreste ha di fronte a sé la sorella, che lo ha preceduto in quella terra lontana e barbara.


Il sacrificio di Ifigenia (Affresco pompeiano)
Vi era arrivata, secondo il racconto di Euripide in Ifigenia in Aulide, quando Oreste era ancora un infante, e l'assenza di vento tratteneva da giorni, sulle sponde dell'Euripo, la flotta achea in procinto di partire per Troia. Fu allora che Agamennone, fremente del duplice desiderio di conquistare l'antica rocca di Ilio e vendicare il fratello Menelao dell'oltraggio subito con la fuga della sposa Elena, si decise a ricorrere al sacrificio e consultò l'indovino Calcante, arruolato nella spedizione. Il responso, al termine del rituale, fu per Agamennone tra i più terribili: per il buon esito dell'impresa avrebbe dovuto accettare di sacrificare alla dea sovrana di Aulide, Artemide, la sua figlia primogenita Ifigenia.

Ma occorreva, prima di tutto, attirarla in Aulide con un pretesto, che l'astuto Odisseo si affrettò a escogitare. A Ifigenia e a sua madre Clitemnestra, spiegò "l'uomo dalla mente dai mille colori", si sarebbe dovuto dire che la si conduceva tra loro per esser data in sposa ad Achille (che si trovava a sua volta a far parte della spedizione, in qualità di capo dei Mirmidoni, proprio a causa di un'astuzia di Odisseo). E invece, rievoca Ifigenia all'inizio di Ifigenia in Tauride,

come giunsi in Aulide, fui afferrata, sollevata in alto al di sopra della pira e sgozzata con la spada.1

O così sembrava. Perché, in realtà,

…Artemide mi trafugò, e agli Achei diede, al mio posto, una cerva. Mi mandò attraverso l’etere rifulgente e mi insediò qui, nella terra dei Tauri, dove su popoli barbarici regna il barbaro Toante, che ha piedi veloci come ali e ha preso nome da questa velocità dei suoi piedi. E lui mi ha insediata qui, sacerdotessa di questo tempio dove officio i preliminari di un rituale gradito alla dea Artemide (di bello ha solo il nome, “rito”, ma del resto non parlo, perché la dea mi fa paura)…2

Ma torniamo adesso al dialogo tra Ifigenia e i due prigionieri in attesa del sacrificio, e più in particolare al punto in cui, poco dopo la scoperta del loro legame di parentela, Oreste racconta alla sorella del suo processo all'Areopago. E’ così che veniamo a sapere perché Oreste, di ritorno ad Argo, anziché restarsene nella reggia di Micene, ha intrapreso un nuovo viaggio, e di nuovo in ubbidienza a un dettato del dio Apollo:

          Ifigenia in Tauride (Affresco pompeiano)

Quando giunsi sul colle di Ares e mi presentai in giudizio, io occupai un seggio: di fronte a me sedette la più anziana delle Erinni. Dopo aver parlato in mia difesa e aver ascoltato l'accusa, Apollo mi salvò con la sua testimonianza, e Atena conteggiò parità di voti. Così uscii assolto dall'accusa di omicidio. Allora quelle fra le Erinni che avevano accettato la sentenza decisero di abitare un santuario vicino al luogo del processo; quelle invece che avevano rifiutato il verdetto presero a darmi la caccia braccandomi senza sosta, finché arrivai nuovamente al suolo che a Febo è sacro. Lì mi piazzai lungo disteso, senza toccar cibo, davanti al penetrale, giurando che mi sarei troncato la vita sul posto se quello stesso dio che mi aveva condotto alla rovina non mi avesse offerto una via di salvezza. A quel punto Febo fece risuonare la sua voce dal tripode d'oro e mi spedì quaggiù, a trafugare il simulacro caduto dal cielo per trasferirlo in Atene.3


Ed ecco che le parole del giovane rimettono qui in gioco la questione del numero delle Erinni. Quante sono davvero? Le fonti più antiche oscillano tra uno e... indefinito. Mentre, dal quinto secolo a.C., ricorrono sempre più di sovente in numero di tre, arrivando infine ad assumere, a cominciare dall'età ellenistica, i nomi individuali di Aletto, Tisifone e Megera con cui le conosciamo oggi.

Analoga variabilità numerica la si riscontra anche a proposito delle Madri. Se sia in Plutarco (Vita di Marcello) che in Goethe il loro numero è indefinito - ...seggon le une, stanno le altre e vagano, recita Mefistofele nel Faust - e i loro nomi individuali ignoti, Rudolf Steiner, rifacendosi al dialogo di Plutarco Il tramonto degli Oracoli e ai Misteri greci, stabilisce in tre il loro numero, e le identifica con le dee greche Rhea, Demetra e Proserpina (Persefone). 

Anche in Thomas De Quincey, il cui Suspiria de Profundis ha fornito a Dario Argento lo spunto iniziale per la creazione della Trilogia delle Madri, il loro numero è di tre. Come tre erano le Furie (Erinni), le Grazie, "e solo tre un tempo erano perfino le Muse, che intonano l'arpa, la tromba o il liuto al grave fardello delle appassionate creazioni dell'uomo...".


Mxmilian Pirneu, Hudba (Musica, 1911)
De Quincey ha tutta l'aria di attingere, in questo caso, da Pausania, che parla di tre Muse generate da Zeus in Mnemosine (Periegesi della Grecia, Libro IX, 29, 2), e/o da Plutarco, con le sue tre Muse venerate a Sicione (Simposio, Libro IX, 14,7), e allo stesso tempo assegnare il primato dell'antichità proprio a questa idea di una triade di Muse, ognuno dei cui elementi si sarebbe poi "triadizzato" fino a portare al numero di nove.

Abbiamo del resto già incontrato, in questa serie di post, un analogo processo di divisione, a proposito della virgiliana Diana Triformis, una e allo stesso tempo triplice, se considerata anche nei suoi aspetti di dea celeste (Luna) e dea infera (Ecate), i quali possono a loro volta formare ulteriori triadi: la triade Luna-Proserpina-Ecate da un lato, e la Ecate dai tre volti - terrestre, celeste e infero - dall'altro.

Sfuggiti a Toante grazie a un espediente di Ifigenia, ma soprattutto in virtù dell'intervento deux-ex-machina di Atena, i tre fuggitivi giungono infine, dopo un ulteriore lungo viaggio, al luogo designato dall'oracolo di Delfi: la foce del Metauros (oggi Petrace), fiume alimentato da sette sorgenti. Dove Oreste si immerse e riacquistò il senno.

Al suo nuovo ritorno a Micene, poi, uccise il fratellastro Alete e regnò su Argo, e dopo la morte di Menelao anche su Sparta. Mentre l'amico Pilade sposò Elettra e divenne cognato suo e di Ifigenia, che continuò a essere sacerdotessa di Artemide anche in terra greca.

E la statuetta lignea di Artemide? Oreste la gettò alla fine in un folto di giunchi, dove però non rimase a lungo. Almeno secondo il racconto di Pausania:

La località detta Limneo è consacrata ad Artemide Orthia4. La statua lignea dicono sia quella che un tempo Oreste e Ifigenia portarono via dalla Tauride; gli Spartani, poi, dicono che fu portata nella loro terra, perché anche qui regnava Oreste. Ritengo la loro versione più probabile di quella degli Ateniesi. Infatti, per quale motivo Ifigenia avrebbe dovuto lasciare la statua a Brauron? O come poteva accadere che gli Ateniesi, quando si accingevano a sgomberare la loro terra, non caricassero anche la statua sulle loro navi?

Eppure, fino ai nostri tempi, della dea taurica è rimasto un tale nome che i Cappadoci e coloro che abitano sull’Eusino rivendicano la presenza della statua presso di loro, ma la rivendicano anche i Lidi che hanno un santuario di Artemide Anaiitis. Gli Ateniesi dunque lasciarono che la loro statua fosse preda dei Persiani. Infatti il simulacro di Brauron fu portato a Susa, e in seguito Seleuco lo diede ai Laodicei di Siria, che ne sono ancora in possesso. E ho altre prove che l’Orthia di Sparta sia la statua lignea originaria proveniente dai barbari. Prima di tutto, Astrabaco e Alopeco, figli di Irbo, figlio di Anfistene, figlio di Anficle, figlio di Agide, appena trovata la statua divennero pazzi. In secondo luogo, gli Spartani di Limne, i Cinosurei, e la gente di Mesoa e Pitane, mentre sacrificavano ad Artemide, vennero a contesa e si spinsero fino al sangue. Molti perirono sull’altare, gli altri li uccise una malattia.

A seguito di questi fatti, ricevettero un oracolo, secondo cui dovevano insanguinare l’altare di sangue umano. Era usanza sacrificare chiunque fosse sorteggiato, ma Licurgo cambiò quest’usanza nella fustigazione degli efebi, e così l’altare si riempì di sangue umano. Presso di loro sta la sacerdotessa, con in mano la statua di legno. Questa è di norma leggera, perché piccola, ma se i fustigatori moderano i colpi per riguardo alla bellezza o al rango di un efebo, subito il simulacro diventa così pesante che la sacerdotessa non lo può sostenere, e questa accusa i fustigatori, e dice che è la loro colpa se è oppressa dal peso. Così, sin dai sacrifici nella regione taurica, la statua continua a compiacersi di sangue umano. E la chiamano non solo Orthia, ma anche Lygodesma, perché fu trovata in un cespuglio di giunchi, e la vermena, che vi si attorcigliò intorno, rese diritta la statua.5


Joseph Michael Gandy (1771-1843), A reconstruction of Sparta: The Persian Porch
and Place of Consultation of the Lacedemonians.

Per quale motivo, viene da chiedersi, così tanti popoli dell'Ellade felice, patria della sophrosyne, gareggiavano a vantarsi di ospitare presso di loro un simulacro che esigeva un costante tributo di sangue e poteva dare la pazzia a solo guardarlo? Caduto dal cielo, il suo potere doveva essere davvero enorme, forse paragonabile a quello delle antiche potenze spodestate da Zeus, e anche, a quel che pare, ineludibile. Come lo era forse il potere di qualsiasi cosa a misura del Mar Nero e delle sue rive.


* * *

1 Euripide, Ifigenia in Tauride, 26-27

2 Ibid., 28-39

3 Ibid., 961-978

4 Orthia, divenuta a un certo momento Artemide Orthia era una dea della natura e una divinità di Sparta. In suo onore si celebravano feste, con gare di fanciulli intese a promuovere la prosperità dei raccolti e le forze vitali della nuova generazione. Premio delle gare era (e non è difficile giustificarlo) uno strumento agricolo: una falce di ferro. Molte stele a noi pervenute (più di 130), quasi tutte di età imperiale, ricordano infatti le vittorie conseguite, e presentano le impronte delle falci che i vincitori (o chi per essi) avevano fatto applicare alla pietra. In certi casi, ma molto raramente, le falci sono rimaste. Le gare consistevano in tre ‘specialità’ e sono indicate dai nomi assai antichi (xαθθηρατόριоν, xελια o xεληα, μώα), dei quali il primo rievoca un’azione di caccia (θήρα), il terzo si riconnette a µоύσα, indicando perciò un agone musicale. [Il significato del secondo termine, xελια o xεληα, è oscuro]

Da: Margherita Guarducci, L’epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma 2002, seconda ristampa, testo e traduzione p.274, n.9. Cit. in: Letizia Leo, Orthia di Sparta tra archeologia e storia

5 Pausania, Periegesi della Grecia, III, 16, 7-11.

L'immagine di apertura del post è: Valentin Aleksandrovič Serov, Русский: Ифигения в Тавриде (Ifigenia in Tauride, 1893).

Commenti

  1. Noto che il concetto di Uno e Trino, senza voler essere blasfemo, è ricorrente nell'antichità. Un po in parecchie religioni o mitologie.

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    1. Ricorre senza dubbio in tutte le culture di derivazione indoeuropea, Nick. E ne discende la classica divisione ternaria delle società correlate in casta sacerdotale, casta guerriera e casta artigiana-contadina.

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  2. É vero, il numero 3, come pure il 7, sembrano avere una profonda significatività simbolica.
    A suo tempo mi ero appassionato alla mitologia greca, e la figura di Ifigenia mi è sempre risultata enigmatica.

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    1. Vero, Ariano, basta solo pensare a quanto questi due numeri ricorrano nelle fiabe, che sono la maschera popolare del mito e quel poco che ne resta di vivo oggi.

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  3. Del numero 3 io ricordo forse erroneamente l'importanza simbolica anche in passato prima dell'avvento della religione cristiana. D'altronde avevo letto che molti sono dell'idea che la religione cristiana nello specifico ma forse quasi tutte le religioni monoteiste più importanti, abbiano "attinto" da aspetti particolari di molte fedi precedenti di carattere politeista. Mi chiedevo poi se la numerologia aveva già a quei tempi la sua forza e la sua importanza.

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    1. Benvenuto sul mio Blog, Daniele! La risposta è senza dubbio sì a tutti i tuoi interrogativi. Le trinità di dei sono esistite in tutte le religioni politeiste, e tuttora sussistono nella cultura indù. La numerologia, poi, era alla base dell'insegnamento pitagorico, che sicuramente aveva attinto sia dall'Antico Egitto che dall'area mesopotamica e indiana.

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