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When Charlie speaks of Lester... - I quaranta anni di "Mingus" /2




Charles Mingus odiava le limitazioni. Odiava le categorie. Jazz, classica, rock, folk... per lui non significavano nulla, erano solo delle restrizioni espressive.
Sue Graham Mingus


* * *


L'esempio più bello, anche se non si tratta di un documento di natura jazzistica, è quello attuato dalla cantautrice canadese Joni Mitchell, artista famosissima che non ha certo operato in cerca di popolarità, che ha costruito uno splendido album dal titolo semplice e significativo: Mingus. All'interno di queste tracce sonore c'è tutta l'essenza della filosofia di Mingus: esprimere soprattutto se stessi. E infatti, questo è un album della cantante canadese, e non si distacca minimamente dai suoi lavori precedenti; eppure, il profumo di Mingus sembra colmargli le narici oltre che l'anima: quel sapore acro e amaro, dolce e fantasioso del grande contrabbassista sembra trasportato implicitamente nella personale espressione di Joni Mitchell, attuando proprio quel lavoro di "ispirazione" che Mingus, ad esempio, aveva fatto nei confronti di Ellington. L'operazione è di ampia entità, ed è nata quando il contrabbassista era ancora in vita, ma fu portata a termine quando il corpo di Mingus giaceva già nelle acque del Gange, ma è certo che se lo avesse potuto ascoltare lo avrebbe apprezzato, così come lo apprezzarono i lettori di Down Beat che nel Readers Poll del 1979 lo votarono miglior disco dell'anno (e in quello stesso referendum, Mingus fu votato musicista dell'anno). Quel disco era nato in maniera singolare: sia Mingus che la Mitchell stavano pensando, separatamente e all'oscuro l'uno dei pensieri dell'altro a un progetto che li coinvolgesse entrambi, Mingus aveva in mente di scrivere qualche composizione per lei, e Joni, dopo aver ascoltato Goodbye Pork Pie Hat, meditava di realizzare una sua versione. Si incontrarono quando Mingus già sedeva immobilizzato sulla sedia a rotelle. 
[...]
Due brani in particolare dimostrano quanto Joni Mitchell avesse colto il succo di quella sfuggente personalità e di come l'abbia espressa con intelligenza e sensibilità. Il primo, God Must be a Boogie Man, è un piccolo capolavoro: Joni ha composto la musica su un testo ricavato dalla autobiografia di Mingus, quello relativo ad una conversazione tra Mingus e il suo psicanalista: "In altre parole, io sono tre..."; adattandolo ma anche completandolo. L'arrangiamento, scarno ed efficace ma soprattutto pungente, lascia al basso di Jaco Pastorius di esporre e interpretare la melodia in lontananza, quasi in secondo piano, quasi a non voler distrarre l'ascolto del testo, mentre in primo piano c'è l'accompagnamento alla voce della chitarra di Joni che ogni tanto lancia frecce di suoni. Il secondo, Goddbye Pork Pie Hat, è organizzato in senso inverso: sulla musica di Mingus la cantautrice ha scritto un un testo aderente sia a Mingus che a colui a cui quella composizione è stata dedicata, Lester Young: When Charlie speaks of Lester you know someone great has gone..., canta Joni Mitchell su uno sfondo sonoro delicato, creato dal basso di Pastorius, dal piano elettrico di Herbie Hancock, dalla batteria di Peter Erskine, sui quali galleggia apparendo e scomparendo il sassofono soprano di Wayne Shorter; ma non ci sono solo Mingus e Lester, in quel testo: c'è tutto un mondo assai vicino ai due soggetti; e poi c'è quella voce che
accarezza la melodia con un garbo che ricorda Billie Holiday: quei glissando dolcissimi che cadono di peso che Lady Day usava spesso, come se la sua voce stesse venendo giù da una collina. Joni ha preso dei pezzettini brillanti del fraseggio di questa donna ma ha mantenuto il suo stile personale e unico, e la combinazione è di un fascino fatale.
(Neil Tesser, "Record Rewiews", Down Beat, 9 agosto 1979)


I due estratti di libro che avete appena letto li ho ricavati dalle pagine 105-107 di Charlie Mingus, un saggio del critico musicale Mario Luzzi che conservo gelosamente nella mia biblioteca personale dal lontano 1983. Ho deciso di presentarli qui perché sono quanto di più vicino ho letto alle impressioni che io stesso ho ricavato dall'ascolto di Mingus. La differenza più sostanziale riguarda semmai la scelta dei due brani simbolo del disco: l'accoppiata che proporrei io sarebbe piuttosto Goodbye Pork Pie Hat e A Chair in the Sky, ma si tratta appunto di scelte personali.




Decisamente critica, invece, la posizione di Luzzi sulla Mingus Dinasty, gruppo a formazione variabile ma tutto formato di ex musicisti di Mingus, ideato e coordinato dalla vedova del musicista, Sue Graham Mingus, che nel 1980 ripubblicò anche in un proprio lp, ma in forma solo strumentale, i brani composti da Mingus per il disco della Mitchell. Scrive Luzzi:
La Mingus Dinasty è una meravigliosa scatola vuota, dove la perizia tecnica e gli sforzi dei bravi musicisti non riescono a superare quel vuoto e quel carisma lasciato da Mingus. Ma questo lo si sapeva già: Mingus era unico e irripetibile.*

E anche qui posso solo dirmi d'accordo. Assistetti, alla fine del 1979, al concerto di Firenze della tournée italiana della Dinasty e non lo ricordo come granché esaltante. Se ne conservo ancora oggi qualcosa, ha più a che fare con l'amorevole introduzione parlata della bionda Sue che con l'esibizione musicale in sé.

Ma torniamo adesso a Mingus e più in particolare alla malattia che lo aveva inchiodato su una sedia a rotelle: la sclerosi amiotrofica laterale. Gliela diagnosticarono nel Giorno del ringraziamento del novembre 1977, senza dargli speranze di guarigione o sopravvivenza. Meno di un anno dopo, nell'estate del 1978, Mingus fu invitato a Washington, al primo Festival del jazz alla Casa Bianca, e fu lì che il grande sassofonista Gerry Mulligan (1927-1996) gli consigliò di fare un tentativo con la curandera messicana Pachita, che era intervenuta con successo su un paio di sue conoscenze.

Barbara Guerrero detta Pachita
Il nome di Pachita, probabilmente la più famosa guaritrice dell'era moderna, è già apparso una volta in questo blog, nella prima parte del mio articolo intitolato La storia segreta del film impossibile, all'interno di una citazione dal libro Psicomagia di Alejandro Jodorowsky. Proprio Jodorowsky, con cui ho avuto modo di interagire varie volte tra la metà dei '90 e i primi anni del 2000, è stato a lungo assistente di Pachita, sebbene, per quel che ricordo, in anni antecedenti quelli relativi a Mingus, e proprio da lei ha appreso l'essenziale dei metodi di guarigione, basati sulla relazione simbolica tra la malattia e l'inconscio del paziente, che ha in seguito utilizzati nella sua psicomagia.
Non userò comunque in questa occasione le parole di Jodorowsky per descrivere il metodo operativo di Pachita, bensì di un autore diverso, meno note (almeno in Italia) ma secondo me più incisive e più rispondenti al vero. Il che ha anche però fatto sì che l’articolo si allungasse oltremisura e io mi trovi ora costretto, per rispettare i miei standard di pubblicazione, a suddividerlo in tre post anziché due come inizialmente previsto. Appuntamento quindi ai prossimi giorni, per la (vera) conclusione.


* * *


* Mario Luzzi, "Trentatré 1/3", Popster, gennaio 1980.

L'immagine di apertura del post è: Joni Mitchell, A Chair in the Sky (1979).

Commenti

  1. Quindi bisogna aspettare la prossima puntata per leggere del metodo operativo di Pachita!
    Già immagino qualcosa del suo incontro con Mingus...ma aspettiamo.
    Volevo dirti una cosa e cioè che mi hai fatto incuriosire e messo la voglia di ascoltare l'album di cui stai parlando con questi tuoi articoli.
    Anche se non amo particolarmente il jazz e l'ho sempre inteso come musica tipicamente Black , quasi esclusivo di tante voci nere.
    Come Ella Fitzgerald ( ho un suo best in 3 CD).
    Sulla Mingus Dinasty posso immaginare la tua delusione senza sorprendermi troppo.
    E' un pò come andare a un concerto dei Queen senza Mercury o ascoltare i Genesis senza Phil Collins o Peter Gabriel.
    Complimenti per l'interesse che riesci a suscitare con questi begli articoli.

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    1. Ti immagini qualcosa del suo incontro con Mingus? Poi, al prossimo post, mi dici se avevi immaginato giusto, eh?
      Sì, sulla Mingus Dinasty hai pienamente ragione. Quando di un gruppo musicale manca proprio l'elemento insostituibile, si può esser bravi quanto si vuole ma gran parte della magia va inevitabilmente perduta.
      Grazie a te per l'interesse che dimostri con i tuoi sempre generosi commenti, Max, e fammi sapere qualcosa quando e se avrai ascoltato "Mingus" :-)

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  2. Wow, ora sono curioso di sapere come va a finire... Questa Pachita mi affascina.
    Comunque... "io sono tre" suona minaccioso ma anche... biblico! XD

    Moz-

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    Risposte
    1. Se poi ci aggiungi anche il "Trentatré 1/3" della nota a fondo post, il discorso si fa decisamente numerologico ;-D
      Come va a finire... si sa già: Mingus morirà pochi mesi dopo. L'interessante è quel che succede in quei pochi mesi :-)
      Grazie Miki!

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  3. ...e dopo Walli Elmlark, ecco Pachita. Attendo di vedere se avrà maggior fortuna.
    PS Ma il testo di "A chair in the sky" ha qualcosa a che fare con sedia a rotelle di Mingus? Non è chiaro...

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    Risposte
    1. Oh, yes! Come del resto mostra anche il dipinto omonimo di Joni Mitchell, pubblicato in apertura.

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  4. Il post l'ho letto accompagnando la lettura con le canzoni citate. :)

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