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Edward Hopper, americano - In risposta a un lettore del blog



Io non ho subito influenze. Davvero. Non lo dico per vantarmi. Ogni artista ha un nucleo di identità che è solamente suo.
Edward Hopper

* * *


Cambio di programma. Il discorso su Hopper e Rilke devia oggi di percorso, dopo un dialogo che si è instaurato, via e-mail, tra me e un lettore del blog. Costui, che si firma Highnoon (il titolo del quadro di Hopper che vedete qui in alto), ha criticato la mia sottovalutazione, nello scorso post, dell'influenza sulla pittura di Hopper di correnti artistiche come l'Impressionismo e la Metafisica. Ne è seguito un libero scambio di opinioni, basato soprattutto sul contenuto di un libro delle edizioni Abscondita in cui sono raccolti i pochi testi scritti dallo stesso Hopper, assieme alle dichiarazioni e interviste da lui rilasciate nel corso degli anni.
Scambio che si è infine concluso con un sostanziale pareggio, ma che mi ha anche indotto, nel frattempo, a pensare di espanderne il contenuto fino a trasformarlo in un articolo. Parlerò comunque soprattutto dal mio punto di vista, e dedicandomi, per il momento, solo alla questione francese e all'Impressionismo, pur contando di occuparmi in futuro anche della parte attinente la Metafisica.

* * *


Comincio col dire che nella limitata produzione scritta di Edward Hopper, oltre a un breve testo del 1933, Note sulla pittura, figurano due suoi saggi quasi altrettanto brevi su due colleghi pittori, entrambi americani. I loro titoli sono:
  • John Sloan e gli artisti di Filadelfia (1927)
  • Charles Burchfield, americano (1928)

Che la scelta di Hopper, tra i tanti possibili nomi, sia caduta proprio su questi due non è assolutamente un caso e non si deve neanche considerare dovuta, secondo me, a una semplice predilezione da parte dell'artista. E' lo stesso Hopper a suggerirne in realtà il motivo, seppure come di passaggio: né Sloan né Burchfield hanno mai visitato l'Europa. Il loro nucleo di identità non è stato cioè contaminato ma è rimasto naturalmente americano.
Hopper, viceversa, il viaggio in Francia - pressoché obbligato per ogni pittore americano di quegli anni - lo ha fatto. Ma sembra proprio, a leggere da quel che scrive nel saggio su John Sloan, che ritenga di essersi comunque preservato:
Eppure, anche se l'America cambia e si sta alterando senza lasciarsi fermare dalle reazioni della provincia, oggi il pittore casalingo è guardato con un nuovo rispetto e una certa invidia dal suo collega che ha inconsapevolmente ceduto il suo diritto di primogenitura in cambio di un bagaglio culturale che comincia ad apparirgli di dubbio valore. Questo collega è un pittore eclettico, che oscilla tra il vecchio e il nuovo come il Tomlinson di Kipling nel vuoto, non trovando pace né in cielo né all'inferno. Non è né carne né pesce: si ferma da noi giusto il tempo di vendere la sua elegante mercanzia e poi torna in Francia per aggiornarla secondo i dettami della moda. Un tipo simile è sempre esistito. Ma il suo plagio non era mai stato così evidente e le sue fonti così scoperte come oggi. Mai prima d'ora si era esaltata tanto l'acutezza della sua intelligenza, anche perché l'acutezza, o quanto si spaccia per tale, non erano mai state tanto di moda. Il tempo farà giustizia di questo genere di artista, che non avendo una visione personale è costretto a imitare i modi degli altri.
Ma che dire degli uomini dotati di talento e originalità, che hanno trascorso un periodo di apprendistato in Europa e sono tornati circondati dall'aureola del fascino europeo per confondere e ritardare la loro appartenenza agli americani?


Appare chiaro da questa lettura come, secondo Hopper, il viaggio in Europa rappresenti per l'artista americano più il rischio di una perdita che una reale opportunità di formazione. Eppure, altrove, è lo stesso Hopper ad attribuire alcune importanti mutazioni della sua pittura ai suoi due soggiorni a Parigi.
Brian O'Doherty, in un suo saggio, gli attribuisce queste parole:
La luce [a Parigi] era diversa da qualunque cosa avessi mai visto prima. Le ombre erano luminose: c'era più luce riflessa. Perfino sotto i ponti c'era una certa luminosità. Forse perché le nuvole sono più basse, proprio sopra il tetto delle case. 
Inoltre Hopper ammette che è a Parigi, sotto l'influsso degli Impressionisti, che schiarisce i colori scuri della sua tavolozza ereditati dagli anni di studio con Robert Henri a New York.
Ma la massima apertura su questo punto la raggiunge nell'intervista rilasciata a Katherine Kuh all'inizio degli anni sessanta, dove si può leggere questo dialogo:
Kuh: Pensi che i viaggi in Europa ti abbiano influenzato?
Hopper: Veramente non lo so. Ho eseguito molte opere in Europa, quadri che un giorno verranno esposti, credo. Sono piuttosto lirici, una sorta di impressionismo o impressionismo modificato. Io sono ancora un impressionista, penso.
Kuh: Perché?
Hopper: Forse le mie semplificazioni dipendono in qualche modo dall'impressionismo. Per me l'impressionismo era l'impressione immediata. Ma sono più interessato al volume, naturalmente. Anche alcuni impressionisti lo erano, sai. La pittura francese, anche quando è superficiale e leggera, è volumetrica. Pensa a Fragonard.


Questa intervista è di alcuni decenni più tarda rispetto ai saggi su Sloan e Burchfield e si potrebbe così facilmente pensare a un ripensamento almeno parziale di Hopper sulla questione, sempre possibile.
Solo che appena due domande dopo, quando l'intervistatrice gli chiede quali artisti lo abbiano maggiormente influenzato, lui dà la sua risposta canonica:
Io mi sono sempre riferito a me stesso. Non so se qualcuno mi abbia influenzato.
Questa schizofrenia apparente, con un Hopper che da un lato dichiara di essere forse impressionista e dall'altro esente da ogni influenza esterna salvo quelle inconsce, si spiega, secondo me, con la distinzione tra l'artista che si lascia piegare dalle influenze, malleabile e pronto a adattarsi alla moda del momento e l'artista che, mantenendosi nel tempo saldo e immutabile come una roccia, piega queste stesse influenze ponendole al servizio del suo "nucleo di identità".
Sembra essere proprio questo, alla fine, il principale metro di valore su cui Hopper basa le sue valutazioni, riguardo a se stesso e ai suoi colleghi:
Il lavoro di Sloan non ha subito cambiamenti radicali dagli esordi a ora. E' solido e tutto d'un pezzo: caratteristica, questa, che in alcuni è indice di una visione personale forte e urgente, che non permette deviazioni. Siccome il bagaglio tecnico di un artista rimane generalmente quello acquisito all'epoca degli studi, Sloan ha afferrato quello che aveva a portata di mano e se l'è fatto bastare.
Così come pedagoghi e psicologi ci dicono che tutto quel che ci forma davvero ci accade nei primi tre anni e il resto della nostra vita è solo una questione di sfumature, Hopper scrive che tutto ciò che gli serve davvero l'artista lo acquisisce all'epoca degli studi, con quello che ha a portata di mano... e se lo fa bastare.
A portata di mano... cioè a un passo da sé, sul suolo americano.
In questo modo si comprende anche perché l'auspicata nascita di una vera arte nazionale non contraddica in alcun modo, in Hopper, il principio del primato dell'individualità dell'artista. Hopper appartiene alla tradizione pittorica americana non perché inserito nell'una o l'altra delle sue correnti, bensì perché il suo nucleo individuale è nato e cresciuto sul suolo americano in modo altrettanto spontaneo di una pianta o di un animale autoctoni:
In fondo, la cosa principale è lo sviluppo naturale della personalità; il carattere nazionale si afferma in gran parte da sé, se l'artista è onesto. Il pericolo, naturalmente, è quello di imporgli una cultura che non gli sia congeniale.
Come era appunto successo con l'esportazione dell'Impressionismo francese in America e la nascita dell'Impressionismo americano.

Non è, per concludere, impossibile né troppo difficile mettersi sulle tracce degli indizi disseminati dallo stesso Hopper e andare a cercare paralleli e coincidenze con l'opera di altri grandi artisti: Rembrandt, Manet, Degas, Homer, ecc. Lo ritengo anche un esercizio utile, in una certa misura, ma più per circoscrivere ancor meglio l'unicità di Hopper che altro. Così da ribadire con lui:
Io non ho subito influenze. Davvero. Non lo dico per vantarmi. Ogni artista ha un nucleo di identità che è solamente suo.

* * *


Note


Tutte le citazioni sono tratte da: Edward Hopper, Scritti Interviste Testimonianze. A cura di Elena Pontiggia. Abscondita, 2000.

Le opere pubblicate nel post sono, dall'alto in basso:
Edward Hopper, Highnoon (1949)
John Sloan, A Woman's Work (1912)
Edward Hopper, Le bistro (1909)

Commenti

  1. Interessante perché questo aspetto della "americanità" non influenzata dall'Europa all'inizio del novecento era un tema anche in letteratura. Howell, uno scrittore americano forse tra i meno celebri, esprimeva nei suoi scritti quasi un orrore per la "corruzione" europea contrapposta alla purezza americana. Va da se che pochi gli hanno dato retta a giudicare dalle lunghe frequentazioni europee di Miller, Gertrude Stein e tutti gli altri letterati americano che facevano la spola fra le due sponde dell'Atlantico.

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    1. Sai che Miller potrebbe essere un analogo di Hopper in questo senso? Penso che nonostante i dieci anni trascorsi in Francia pochi scrittori possano dirsi più americani di lui. Non a caso i due sono stati spesso paragonati tra loro.

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  2. Tutto molto curioso, l'occasione che ha permesso questo post, l'argomento della discussione, il contenuto del post stesso.
    L'idea di "preservarsi da" contaminazioni penso sia una volontà razionale; questo non significa che comunque possano essercene state inconsapevolmente.
    Fatico a capire il problema: Hopper non è abbastanza unico? Non ha eventualmente rielaborato e interiorizzato secondo il SUO universo?


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    1. Sono i cosiddetti inconvenienti della diretta, Glò ;)
      Riguardo al "problema", l'interessante secondo me è vedere come si può affrontare il discorso da due diversi punti di vista senza che per forza uno escluda l'altro. Per questo ho parlato di "sostanziale pareggio".

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    2. Infatti. Però, tu hai iniziato un discorso preciso: un raffronto tra due artisti secondo un filo logico che hai intravisto.
      Ora, non è che occorrerà vivisezionare entrambi gli autori, in relazione alle rispettive formazioni, no?

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    3. Col prossimo post riprenderò il cammino intrapreso in precedenza, Glò... fatto salvo l'intervento di un nuovo "bello della diretta" ^_^

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  3. Ivano, scusa l'OT, mi contatteresti a mikimoz@hotmail.com? :)

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  4. "Per me l'impressionismo era l'impressione immediata. Ma sono più interessato al volume, naturalmente. Anche alcuni impressionisti lo erano, sai. La pittura francese, anche quando è superficiale e leggera, è volumetrica. Pensa a Fragonard".
    Stupefacente passaggio. Che aggiunge un tassello alle mie conoscenze in merito all'Impressionismo, ormai vecchie di un ventennio, da reminiscenze universitarie. Dell'Impressionismo mi è sempre piaciuto il senso, la capacità di altissima sintesi, il coraggio, l'originalità. Invece in questo passaggio di Hopper scopro che le volumetrie, la forma in generale, sono ostinatamente presenti anche in questo formidabile "ismo". Si aprono nuovi scenari nella mia percezione di questa arte.

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    1. Io nell'Impressionismo i volumi li associo spontaneamente alle donne di Renoir.
      Tra l'altro, proprio una frase di Renoir era tra le preferite di Hopper: "La cosa più importante di un quadro è ciò che non si può definire".
      Comunque, io ci provo lo stesso, a definire... non si sa mai ;)

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  5. Io credo che Hopper sia 'americano' ed abbia una carattere americano molto forte a partire dalla tavolozza che usa, mi ha ricordato alcune illustrazioni di un naturalista americano di cui hai discusso qualche mese fa.
    Anche se in uno dei dipinti che hai mostrato (l'ultimo) si vede una drammaticità di luce nelle figure che ricorda altro che la Francia, l'Italia(!) in generale i colori rimangono naturali e mossi da un'energia naturale altrettanto, il vento e le atmosfere in dissolvenza dei fields americani! :D

    Magari la sua permanenza e coerenza nell'ambito americano deriva da una finalità ben precisa della sua poetica, cosa di cui stai ampiamente discorrendo nel percorso principale a confronto con Rilke.

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    1. Il naturalista di cui parli era Audubon e anch'io lo vedo inserito nella stessa corrente (nel senso di fiume) della pittura di Hopper. Tanto che avevo insinuato la possibilità che un certa visione panica della natura, secondo me molto presente anche in Hopper, fosse iniziata proprio con lui, Audubon *_*

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  6. Bellissima analisi di un rapporto artistico giustamente definito di apparente schizofrenia. Mi ricorda - poiché lo sto approfondendo in questi giorni per i miei studi - la duplicità di Cicerone nei confronti delle arti importate dalla Grecia: da un lato il riconoscimento di una preziosa eredità, dall'altro la tendenza a rinnegarla per affermare la propria indipendenza e, potenzialmente, la propria superiorità. Se vogliamo, sono ambiguità che si riscontrano in ogni situazione in cui ci sono un maestro e un allievo: quest'ultimo è sempre portato a ritagliarsi un proprio spazio, a ricercare un'autonomia che l'eccessiva osservanza della lezione potrebbe negare. Ottimi spunti per la lettura di un artista che, oggi più che mai, sembra avere molto da dirci! :)

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    1. Grazie Cristina :)
      Edward Hopper è sempre stato il mio pittore preferito, sai? La sua rappresentazione del mondo è sempre collegata a una percezione interiore molto più profonda di quella della coscienza ordinaria.

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