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Il poeta e il traduttore [Re-Edit]



Nota: Questo post è apparso in origine nel 2012 sul mio primo blog, Power Spot, con il titolo La lettera sull'Invisibile di Rainer Maria Rilke. Alcune citazioni della lettera oggetto del post sono già apparse in questo blog nella serie (anch'essa in attesa di revisione) Rilke e Hopper tra visibile e invisibile, ma penso sia tempo ora di riproporne il testo nella sua interezza, come esempio di percezione e comprensione del reale (la caratteristica di cui più difetta in assoluto questo "secolo" oramai alla fine).



1. Introduzione

"Nascosta" tra le note di commento, alle pagine 644-647 di Poesie 1907-1926, un volume pubblicato da Einaudi nell’anno 2000*, figura un testo a mio avviso straordinario, che meriterebbe di essere incluso in ogni esaustiva antologia della mistica occidentale, accanto alle pagine di Hildegard von Bingen, Jacob Böhme o Emanuel Swedenborg: una  lunga lettera indirizzata da Rainer Maria Rilke in data 13-XI-1925 (quindi un anno circa prima della morte del poeta) al suo traduttore polacco, Withold von Hulewicz (1895–1941), che gli aveva chiesto chiarimenti sul contenuto delle Elegie Duinesi (1922), la sua raccolta poetica più matura e importante insieme alla coeva Sonetti a Orfeo.

Rainer Maria Rilke, il poeta.
Iniziata da Rilke con una affermazione di inadeguatezza a dire di più quel che già ha detto in forma poetica, la lettera diventa in realtà quasi subito una sorta di sistematizzazione della concezione rilkiana del destino e della ragion d'essere dell'essere umano all'interno di quella totalità razionalmente organizzata, e intrinsecamente armonica, definita cosmo (che è poi il filo conduttore che percorre e lega tra loro le dieci Elegie). E ne risulta, alla fine, un resoconto che Rilke certo non reputava necessario, e quindi "d'occasione", di quel particolare tipo di esperienza attraverso cui
…noi possiamo conoscere una verità diversa da quelle che sono legate alla percezione degli oggetti, poi del soggetto, e infine connesse alle conseguenze intellettive della percezione.**

Una definizione, questa della mistica, che ci è offerta dal filosofo francese Georges Bataille (1897-1962), che poco dopo aggiunge, a proposito della verità così ottenuta e partecipata:

…questa verità non è formale, e il discorso coerente non può renderne conto. Sarebbe anche incomunicabile, se noi non potessimo avvicinarci ad essa per due vie: la poesia, e la descrizione delle condizioni nelle quali abitualmente si accede allo stato mistico.***

Withold von Hulewicz, il traduttore.
E se alla prima via appartengono le Elegie Duinesi, nella seconda rientra di diritto la lettera di Rilke, che tiene tra le altre cose anche traccia di un processo difficile da rendere esplicito in forma poetica: il suo distacco, sempre più netto nell'ultima fase della sua vita, dall'esperienza religiosa cristiana in favore di quella islamica; un processo per certi versi analogo a quello in cui era incorso pochi decenni prima il filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900), la cui opera Rilke, a dispetto del suo dichiarato disinteresse per la filosofia, conosceva e aveva almeno una buona ragione per conoscere. Una ragione di nome Lou Andreas-Salomé.

2. Lettera sull'Invisibile

Rainer Maria Rilke a Withold von Hulewicz, 13-XI-1925.

Nota: Il titolo "Lettera sull'Invisibile" é di mia invenzione. Ho inoltre escluso dal testo le parti iniziale e finale, di preambolo e saluto.

[Sulle Elegie Duinesi] caro mio, neppure io oso dir nulla. Sulla base delle singole poesie, forse, si potrebbe tentare qualche spiegazione, ma così, dove iniziare?
E sono io colui cui è lecito dare delle Elegie la spiegazione giusta? Esse mi sopravanzano infinitamente. Le ritengo un’elaborazione ulteriore di quelle premesse essenziali che erano già date nello Stundenbuch [Il Libro d’Ore], le quali, nelle due parti dei Neue Gedichte [Nuove Poesie], si servono dell’immagine del mondo per i loro giochi ed esperimenti, e che poi nel Malte [I quaderni di Malte Laurids Brigge], contratte in un conflitto, si ripercuotono sulla vita e giungono quasi a dimostrare che questa vita, appesa in questa immensità vuota, è impossibile. Nelle Elegie, partendo dagli stessi dati, la vita torna ad essere possibile, anzi ottiene quell’assenso definitivo a cui il giovane Malte, seppure sulla giusta, difficile via “des longues études”, non era riuscito ad arrivare. Assenso alla vita e alla morte risulta essere, nelle Elegie, una cosa sola. Consentire all’una e non all’altra è (questo esperisce e si celebra nelle Elegie), è una limitazione che esclude ogni infinità. La morte è la faccia della vita che da noi si distoglie, da noi lasciata al buio; dobbiamo tentare di essere massimamente consapevoli della nostra esistenza, che è di casa nei due terreni non separati, inestinguibilmente nutrita da entrambi… La vera figura della vita attraversa i due campi, il sangue del circolo estremo li bagna entrambi: non esiste né aldiquà né aldilà, bensì la grande unità in cui sono di casa gli esseri che ci sopravanzano, gli “angeli”.
E poi il luogo del problema dell’amore in questo mondo ora ampliato della sua parte più grande, in questo mondo solo ora intero, solo ora integro. Mi sorprende che i Sonetti a Orfeo, che sono almeno altrettanto “difficili”, pervasi dalla stessa essenza, non le siano di maggior aiuto per comprendere le Elegie. Queste furono iniziate nel 1912 (a Duino), e continuate (in maniera frammentaria) fino al 1914 in Spagna e a Parigi; la guerra interruppe quel lavoro, che era il mio più grande; quando osai riprenderlo nel 1922 (qui), le nuove elegie e la loro conclusione, furono precedute dai Sonetti a Orfeo, che si imposero tempestosamente, in pochi giorni (e che non erano nei miei piani).
I Sonetti sono, e non può essere altrimenti, dello stesso “parto” delle Elegie. Il fatto che siano affiorati d’improvviso, senza mia volontà, legandosi a una ragazza morta giovane, li avvicina ancor più alla loro sorgente originaria. Quel legame è una relazione in più con il centro di quel regno, le cui profondità e i cui influssi noi, in nessun punto separati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno. Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo di noi. In tale mondo immenso e “aperto” tutti sono, non si può dire “contemporaneamente”, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che tutti siano.


Caspar David Friedrich, Nebel im Elbtal (1821)

La caducità precipita ovunque in un essere profondo. E così, tutte le figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni di cui partecipiamo. Ma non in senso cristiano (dal quale mi allontano con passione crescente); si tratta invece, con coscienza terrena, profondamente, beatamente terrena, di introdurre ciò che qui vediamo e tocchiamo, nell’orizzonte più ampio, estremo. Non in un aldilà la cui ombra oscura la terra, bensì in un tutto, nel tutto. La natura, le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma, fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia, come già furono i confidenti dei nostri avi. Si tratta allora non solo di non diffamare e mortificare le cose terrene ma, proprio a causa della caducità che dividono con noi, questi fenomeni e cose devono essere da noi compresi e trasformati con la più intima intenzione. Trasformati? Sì, perché è nostro compito imprimere in noi questa terra provvisoria e caduca con tanta profondità, sofferenza e passione, che il suo essere risorga “invisibile” in noi.
Siamo le api dell’invisibile. Nous butinons éperdument le miel du visible, pour l’accumuler dans la grande ruche d’or de l’Invisible. Le Elegie ci mostrano intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle sfere di vibrazione dell’universo. (Poiché le diverse materie dell’universo non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli, nebulose e costellazioni).
E questa attività viene singolarmente sostenuta e spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno sostituite. Ancora per i nostri nonni una “casa”, una “fontana”, una torre familiare, il loro stesso vestito, il mantello erano infinitamente di più, infinitamente più familiari; quasi ogni cosa un vaso in cui trovavano cose umane e in cui aggiungevano cose umane. Ora, dall’America, arrivano cose vuote e indifferenti, cose apparenti, imitazioni della vita… Una casa, in senso americano, una mela americana o una vite di quei luoghi non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, l’uva in cui erano confluite le speranze e la riflessività dei nostri avi… Le cose animate, le cose esperite, le cose che sanno di noi si avviano al tramonto, e non possono essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che hanno conosciuto quelle cose. Su di noi grava la responsabilità di conservarne non solo la loro memoria (sarebbe poco e inaffidabile), ma il valore umano e larico. (“Larico” nel senso delle divinità domestiche).


Caspar David Friedrich, Die Riesengbirge (1830–1835)

La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile; in noi, che partecipiamo dell’invisibile con una parte del nostro essere, noi che dell’invisibile possediamo (almeno) quote di partecipazione, noi che possiamo, durante la nostra esistenza quaggiù, aumentare il nostro patrimonio di invisibilità – solo in noi può compiersi questa intima e duratura trasformazione del visibile nell’invisibile, in ciò che non dipende più dall’essere visibile e tangibile, come il nostro destino diventa in noi, continuamente, al contempo più presente e invisibile. Le Elegie stabiliscono questa norma dell’esistenza: assicurano, celebrano questa coscienza. La inseriscono con cautela nelle sue tradizioni, reclamando per questa ipotesi antichissime tradizioni e le voci di tradizioni, ed evocano persino nel culto egizio dei morti una pre-scienza di tali relazioni. (Sebbene la «terra della lamentazione», attraverso cui la vecchia «Lamentazione» conduce il giovane morto, non sia da identificarsi con l’Egitto, ma sia solo un rispecchiamento della regione del Nilo nella chiarezza desertica della coscienza dei morti). Se si commette l’errore di misurare le Elegie o i Sonetti con concezioni cattoliche della morte, dell’aldilà e dell’eterno, ci si allontana completamente dal loro punto di partenza e si costruisce un equivoco sempre più profondo. L’«angelo» delle Elegie non ha nulla a che vedere con l’angelo del cielo cristiano (semmai con le figure angeliche dell’Islam)… L’angelo delle Elegie è quella creatura in cui la metamorfosi del visibile in invisibile, che noi operiamo, compare già compiuta. Per l’angelo delle Elegie tutte le torri e i palazzi passati sono esistenti, perché da tempo invisibili; e le torri e i ponti del nostro esistere, che ancora si ergono, sono già invisibili, sebbene ancora (per noi) durino fisicamente. L’angelo delle Elegie è quell’essere che è garante del fatto di riconoscere nell’invisibile un superiore rango della realtà. Per questo è «tremendo» per noi, perché noi, coloro che amano e trasformano, siamo ancora legati al visibile.
Tutti i mondi dell’universo sono in cammino verso l’invisibile, nella realtà più profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione. Noi siamo, sia sottolineato una volta ancora, nel senso delle Elegie, siamo noi coloro che trasformano la terra; tutta la nostra esistenza, i voli e le cadute del nostro amore, tutto ci rende capaci di questo compito (accanto al quale, sostanzialmente, non ne esiste un altro). I Sonetti mostrano particolari di questa attività, che compare sotto il nome e la protezione di una ragazza morta, la cui incompiutezza e innocenza tiene aperta la porta della tomba, sicché lei, che se ne andata, appartiene a quelle potenze che mantengono fresca la metà della vita, e aperta verso l’altra metà, spalancata come una ferita.
Le Elegie e i Sonetti si sostengono continuamente a vicenda, e io scorgo una grazia immensa nel fatto di aver potuto, con lo stesso soffio, gonfiare entrambe le vele: la piccola vela color ruggine dei Sonetti e l’immensa vela bianca delle Elegie.


* * *


* Il volume è curato da Andreina Lavagetto, ma un’avvertenza a opera della stessa curatrice indica che le note di commento sono una scelta e un adattamento da una precedente edizione delle poesie di Rilke a cura di Giuliano Baioni (Biblioteca della Pleiade, Einaudi-Gallimard, Torino 1994 e 1995).

**, *** Georges Bataille, La letteratura e il male; pag. 25. Se 1987, 2006. Traduzione di Andrea Zanzotto.

L'immagine di apertura del post è: Caspar David Friedrich, Neubrandenburg (1816-17, particolare).

Commenti

  1. Una profondità di vedute, e una capacità straordinaria di esprimerla, rispetto alla quale mi sento come uno che sta guardando dalla strada qualcun altro che è sul piano piú alto di un palazzo. Io infatti vedo solo le mura dei palazzi, una corte chiusa, in ombra e senza uscite, mentre chi è sul piano alto le mura in basso neppure le vede e ha già gli occhi rivolti verso l'orizzonte che per lui è ben visibile.

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    1. Wow, Ariano, hai scritto un commento che vola dritto della top five dei migliori di questo blog. Si vede che Rilke in qualche modo ha ispirato anche te :-))

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  2. Concordo sul fatto che la mistica sia lʼaccesso alla verità staccato dai sensi, ma anche dalle potenze dellʼanima, intelletto, memoria, volontà, immaginazione... È la sospensione della distanza tra soggetto e oggetto del conoscere, e unione con esso. Di più non so dire, se non qualcosa che ho sentito dire e che un poʼ mi fa prendere Rilke, indubbiamente grande poeta, con le pinze: “Tutta la mistica è incentrata sullʼunione dellʼanima con Dio”.

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    1. Benvenuto sul mio blog, Filippo e grazie del commento. Hai centrato un punto importante, ma che in fin dei conti è secondario rispetto ai fini del mio discorso. In realtà l'approccio di Rilke è più di tipo metafisico che mistico, come lo è quello degli altri nomi a cui non a caso l'ho accostato nell'introduzione. Non avrei infatti mai accostato a Rilke mistici puri come Angela da Foligno, San Giovanni della Croce o Santa Teresa D'Avila, che si focalizzano su quell'unione dell'anima con Dio di cui parli. Si tratta di due modi diversi di approcciare una medesima materia e secondo me ridurre tutto all'affermazione “Tutta la mistica è incentrata sullʼunione dellʼanima con Dio” ha un senso solo finché si rimane nell'ambito della mistica pura. E' comunque abbastanza normale trovare racchiusi sotto la comune denominazione di mistica entrambi gli approcci, metafisico e mistico. E così ho fatto anch'io in questa occasione. Ma, ripeto, i nomi che ho elencato dovrebbero bastare già da soli a far capire, a chi mastica di queste cose, a quale dei due ambiti appartiene esattamente Rilke.

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